Albe Baita

Intervista ad Albe che venerdì 5 dicembre ha finalmente pubblicato il suo primo album Baita. Un progetto che rappresenta la definizione della sua identità musicale: un percorso di ricerca che trova finalmente forma, coerenza e voce.

Intervista ad Albe, il nuovo album “Baita”: radici, errori, amicizia e una nuova maturità artistica

Albe, come stai vivendo questo momento così importante per il tuo percorso artistico?
Lo sto vivendo con grande serenità e soddisfazione. Dopo un periodo molto lungo di preparazione, finalmente è arrivato il momento di godermi le uscite, di godere della musica che prende vita fuori dallo studio. Sono tranquillo, contento e davvero grato del percorso che mi ha portato fin qui.

“Baita” è un disco che definisce in modo chiaro la tua identità musicale. Come si è evoluto il percorso che ti ha portato a costruirlo?
È un album che ha richiesto tempo. L’ho scritto nell’arco di diversi anni, non in poche settimane, e questo si sente. Io stesso sono cambiato tantissimo in questo periodo, sia come persona che come artista. Ogni trasformazione ha generato una sfumatura musicale diversa, e il disco riflette perfettamente questo flusso personale. Non è mancanza di direzione: è semplicemente la mia evoluzione naturale.

Hai dichiarato che “Baita” non è un punto di partenza né un punto di arrivo. Allora cosa rappresenta?
Per me rappresenta le fondamenta. Non un inizio e nemmeno una consacrazione, ma la base solida da cui costruire ciò che verrà. È la prima volta che sento di avere un disco che mi rappresenta al 100%. Un punto fermo su cui poter crescere.

Nel disco emergono temi come i legami autentici, le amicizie, le radici. Da dove nasce questa esigenza di raccontare ciò che ti circonda?
È nato tutto in modo molto naturale. Un anno e mezzo fa mi ero messo a scrivere, ma non usciva nulla. Zero. Allora mi sono chiesto: “Di cosa parlo davvero?”. In quel momento non avevo drammi amorosi, storie complicate o grandi successi da raccontare. Avevo la mia quotidianità, gli amici, la mia fidanzata, la mia famiglia, i luoghi in cui sono cresciuto. Ho capito che quelle cose semplici erano piene di significato e meritavano di essere raccontate.

Il disco ha un suono molto suonato, molto “band”. Com’è nata questa scelta così organica e live?
È nata dal bisogno di autenticità. Ho coinvolto la mia band di amici e abbiamo registrato gran parte del disco quasi in presa diretta. Batterie, bassi, chitarre: tutto suonato e registrato con noi dentro la stessa stanza, con le stesse energie. Nell’ultimo brano c’è persino un coro di amici fuori tempo, volutamente lasciato così perché rappresenta quel momento di vita reale. Volevamo che il passaggio dallo studio al palco fosse naturale, quasi identico.

Il disco riesce a unire introspezione e immediatezza d’ascolto. Come avete trovato questo equilibrio?
Penso sia merito dell’energia condivisa. Le canzoni sono state registrate tutte nello stesso periodo, con le stesse persone, gli stessi strumenti, gli stessi stati d’animo. Anche se i brani parlano di temi diversi, sono legati da una coerenza emotiva. È come se avessero assorbito la stessa temperatura emotiva di quei due giorni in sala.

Un tema centrale è quello dell’errore. Quanto è difficile accettare la propria fallibilità e metterla in musica?
Non è difficile: è necessario. Non credo che si debba “accettare” lo sbaglio, nel senso di subirlo. Devi proprio capire che l’errore è essenziale. Serve a crescere, a maturare, a cambiare direzione. E continuerai a sbagliare, ovviamente, ma sbaglierai meglio, con più consapevolezza. Questo disco è pieno di errori trasformati in lezioni.

Il brano “Baita” ha un forte suono indie folk. Quando hai capito che quello sarebbe stato il suo sound ideale?
È nato così, spontaneamente. Qualcuno potrebbe dire: “Albe, passi dall’indie folk al britpop, non si capisce”. Ma la verità è che se un brano nasce in un certo modo, è giusto lasciarlo vivere così com’è. Non c’è una regola che dice che non puoi mescolare generi. “Baita” è nato chitarra alla mano, in sala prove, con quel mood lì. Sarebbe stato sbagliato alterarlo. È il brano concept del disco, quello che apre la porta al resto.

E poi c’è “Te l’avevo detto”, un brano agli antipodi.
Esatto, è l’altra faccia del disco. Ma “Baita” non è nato per essere totalmente coerente a livello stilistico: rappresenta una verità personale, non una strategia. In quel periodo ascoltavo di tutto: folk la sera, rock il giorno dopo, electronic qualche ora più tardi. Questo disco è stato anche un modo per capire cosa mi piace davvero fare.

Vocalmente il disco ti mette alla prova in vari registri. Come ti sei preparato?
Non ci siamo mai dati limiti tecnici. Non esisteva il “questa nota è troppo alta, questa troppo bassa”. Se la tonalità era questa, trovavamo soluzioni creative. E poi ho sperimentato tanto, perché anche vocalmente era un periodo di scoperta: volevo capire che cosa mi appartiene davvero, quali colori ha la mia voce.

“Come fanno tutti” è uno dei momenti più intensi del disco. Perché la definisci una canzone “sfogo”?
Perché nasce da un’urgenza. È uno dei pezzi più sperimentali, un vero crossover. Mi ha permesso di tirare fuori emozioni più crude, più dirette. Musicalmente rappresenta una direzione che vorrei riprendere in futuro. È un brano a cui sono molto legato.

In “Con te non ci torno più” affronti la mancanza con lucidità e maturità. Cosa rappresenta per te questo brano?
È uno dei testi di cui vado più fiero. Ci sono intuizioni che sono nate quasi da sole, spontanee, e quando le riascolto penso: “Come mi è venuto in mente?”. È quel tipo di scrittura che vorrei riuscire a trovare più spesso. È un brano sincero, diretto, adulto.

“Alla fine sono io” invece è un dialogo con il te stesso del passato.
Sì, è l’unico brano scritto totalmente da solo. E si sente. L’ho composto nel mio paese, con la mia chitarra, in un momento di grande calma. È una canzone piccola, quasi una ninna nanna. Parlo al me bambino, gli racconto com’è andata, cosa ho capito. È un brano dolcissimo, il più intimo del disco.

Arriviamo agli house concert, un’idea molto particolare. Cosa ti aspetti da questa esperienza?
Non ho particolari aspettative: voglio viverla con leggerezza. Abbiamo deciso di farli perché “Baita” significa proprio “casa”. Chi ha comprato il vinile potrà venire a questi piccoli concerti nelle case di Milano, Bologna, Roma e Napoli. Sarà chitarra e voce, ascolto condiviso, chiacchiere, forse una birra. Mi piace l’idea di incontrare le persone che mi ascoltano: poche, ma vere. A volte ti aiutano a capire anche il tuo percorso.


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