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Intervista agli Elephant Brain: “Fare musica è una forma di resistenza alla frenesia quotidiana”

Elephant Brain

Intervista agli Elephant Brain, che hanno pubblicato il terzo album “Almeno per ora”, (Woodworm Label / Universal Music Italia) che arriva a tre anni di distanza da “Canzoni da odiare”, il disco che ha portato la band perugina a calcare i palchi di gran parte della Penisola confermandosi come una delle band più apprezzate della scena rock indipendente italiana.

Anticipato dal singolo “Impareremo a perdere, il terzo album degli Elephant Brain, registrato da Marco Romanelli e prodotto da Jacopo Gigliotti, è un disco che nasce per abitare il tempo presente, riconoscendone la fragilità e la forza, come uno spazio in cui il passato smette di essere solo dolore e il futuro inizia a farsi possibile.

Di seguito la Tracklist dell’album
1.  Il nulla è già molto
2.  Impareremo a perdere
3.  È solo un’altra domenica
4.  Sto meglio
5.  Benedici (con Voina)
6.  Non conta niente
7.  Le prime luci
8.  Una casa in cui tornare
9.  Almeno per ora

Dopo la pubblicazione dell’album, la band tornerà dal vivo con “Almeno per ora – Club Tour“, che li porterà nei principali club italiani tra novembre 2025 e gennaio 2026. Gli show autunnali e invernali saranno anche l’occasione per riascoltare dal vivo alcuni dei brani contenuti negli album precedenti. Qui il calendario e Qui il link per l’acquisto dei biglietti.

Intervista agli Elephant Brain

Il vostro nuovo album “Almeno per ora” arriva tre anni dopo “Canzoni da odiare”. In che modo sentite di essere cambiati come persone e come band in questo tempo?
In questi tre anni siamo cresciuti molto, sia musicalmente che umanamente. Abbiamo maturato nuove consapevolezze, sia a livello strumentale che di scrittura. Siamo passati dalla vita universitaria a quella lavorativa, quindi a una dimensione più “vera” e quotidiana. Questo inevitabilmente ha influenzato la nostra musica, che oggi sentiamo più matura e più sincera.

Avete affermato che il disco nasce “per abitare il tempo presente”. Cosa significa per voi vivere il presente e come questa idea si riflette nei brani?
Per noi vivere il presente significa raccontare ciò che stiamo davvero vivendo: la ricerca di un equilibrio, di un lavoro, di un senso dentro la routine. Le tracce parlano proprio di questo — non potremmo scrivere di altro. Fare musica, per noi, è una forma di resistenza alla frenesia quotidiana. È un modo per restare ancorati a noi stessi e, speriamo, anche un appiglio per chi ci ascolta.

Il titolo del disco, “Almeno per ora”, è anche la frase che chiude l’album. Quando avete capito che sarebbe diventato il filo conduttore del progetto?
In realtà l’abbiamo capito solo alla fine. Non scriviamo mai con un concept predefinito, ma lasciamo che i pezzi nascano dal vissuto. Quando abbiamo messo insieme tutti i brani, ci siamo accorti che Almeno per ora rappresentava perfettamente la sensazione di incertezza e consapevolezza che attraversa tutto il disco. È un “qui e ora” che ci fa paura, ma anche un invito ad accettare l’incertezza del futuro.

Il disco parla di fragilità, paura e gratitudine. Quanto è stato terapeutico scrivere queste canzoni, anche considerando il periodo storico complesso in cui sono nate?
Scrivere è stato profondamente terapeutico. La musica per noi è salvifica: ci permette di espiare le nostre piccole rotture quotidiane e trasformarle in qualcosa di condivisibile. Ogni volta che registriamo o suoniamo, si crea un gruppo di persone — musicisti, amici, collaboratori — che ci sostiene e ci ricorda perché facciamo tutto questo.

Nei vostri testi si percepisce sempre un equilibrio tra introspezione e realtà. Come riuscite a bilanciare questi due elementi?
Non vogliamo essere troppo espliciti né troppo criptici. Ci piace che chi ascolta possa dare la propria interpretazione. Lasciamo spazio alla libertà di lettura: ognuno può trovare nelle nostre parole il significato che più gli appartiene. In fondo, la forza della musica sta proprio in questo dialogo tra chi scrive e chi ascolta.

Il vostro sound in “Almeno per ora” sembra ancora più stratificato e maturo. Quali sono state le principali influenze musicali di questo progetto?
Sicuramente il rock alternativo americano. Ci ispirano molto band come Spanish Love Songs, Slowjoy, Your Arms Are My Cocoon, e in generale quella scena “Midwest emo” che in America è enorme ma qui resta di nicchia. Ci piace quel modo viscerale di raccontare le emozioni attraverso le chitarre e i crescendo sonori.

Nel disco si alternano brani più intimi, come “Le prime luci”, e altri più potenti, come “Non conto niente”. Come riuscite a mantenere credibilità pur cambiando pelle sonora?
Il segreto è seguire l’istinto. Le prime luci ha avuto tantissime versioni — con chitarra, pad, piano — finché non abbiamo trovato quella che ci rappresentava di più. Non conto niente, invece, è nata già “giusta”, dal primo giorno in sala prove. Per noi la prova del nove è proprio quella: se un pezzo funziona subito, senza troppi ritocchi, allora è quello giusto.

A breve partirà l’“Almeno per ora Club Tour”. Che tipo di esperienza volete offrire al pubblico e come si inseriscono i nuovi brani accanto a quelli del passato?
Sarà un concerto intenso, con atmosfere diverse ma con un filo emotivo che unisce tutto. I tre dischi che abbiamo pubblicato rappresentano tre fasi differenti, ma stiamo lavorando a una scaletta che permetta di vivere l’intero percorso in modo coerente. Sarà rumoroso, pieno di chitarre, ma anche con momenti più intimi. Vogliamo che il pubblico si immerga completamente nel nostro mondo, almeno per un’ora e mezza.

C’è qualcosa che vuoi aggiungere per chi vi segue fin dagli inizi?
Solo un grande grazie. In questi anni si è creato un pubblico che ci sostiene davvero, che cresce con noi e ci accompagna in ogni tappa. È la parte più bella di tutto questo viaggio.

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