Guappecarto'

Dopo il grande successo del tour italiano, i Guappecartò tornano al centro della scena con D-Segni, un concept album potente e visionario che segna un nuovo capitolo della loro storia. Un progetto nato da un’eredità artistica profonda, tra memoria, trasformazione e rinascita, capace di fondere musica, immagini e narrazione. Tra club sold out, un ritorno imminente in Francia e un tour europeo in arrivo, il duo racconta un viaggio lungo oltre vent’anni. In questa intervista ci addentriamo nel cuore di D-Segni, tra radici, sperimentazione e spirito nomade.

Intervista ai Guappecartò

1. “D-Segni” nasce da un’eredità artistica molto speciale, quella lasciata da Madeleine Fischer. Quando avete compreso che quel libro di disegni sarebbe diventato la scintilla per un intero concept album?
Quando, nel 2004, Madeleine, la nostra “Dama”, ci ha regalato il suo libro “Segni” l’abbiamo custodito con un rispetto quasi sacro. L’8 aprile 2020 Madeleine ci ha lasciato e la riscoperta del suo libro ci è stata illuminante. Poi grazie a Stefano Piro, nel suo studio ad ottobre 2024, ci siamo resi conto che non potevamo più prescindere da quell’eredità: il libro non era un accessorio, ma la sceneggiatura visiva del nostro intero concept album. Era come se Madeleine, attraverso i suoi segni, continuasse a dirigerci.

2. Nel disco si parla di memoria, trasformazione, rinascita. Come avete tradotto in musica il rapporto affettivo e simbolico che vi legava a Madeleine, la vostra “Dama”?
Madeleine per noi è un punto di riferimento affettivo e artistico, un ponte tra l’Italia e la nostra vita nomade. Abbiamo tradotto questo rapporto in musica cercando l’equilibrio tra melanconia e vitalità. La sua memoria è nelle note sospese, nei momenti di quiete quasi liturgica, la trasformazione e la rinascita sono nelle esplosioni ritmiche, nell’energia della musica che usiamo per “far ballare l’anima”. È un omaggio che non rimpiange, ma celebra la bellezza lasciata, cercando sempre scoprire la luce avvolta nell’ombra.

3. Il titolo stesso, “D-Segni”, richiama un mosaico fatto di immagini e suoni. Qual è stato il processo creativo che vi ha portato a intrecciare tratto, movimento e musica?
Il titolo, “D-Segni”, racchiude la nostra poetica. È nato dall’idea di tradurre i segni di Madeleine in segni sonori. Abbiamo operato un modo di comporre molto vicino al lavoro di un artigiano, dove la materia prima (il segno) detta la forma (il suono).

4. Il nuovo live set vi vede affiancati da musicisti come Seb Martel, Mala, Braga e Natale La Riccia. Com’è nato questo nuovo equilibrio sul palco e cosa ha portato alla vostra dimensione live?
Questo nuovo equilibrio è nato dal desiderio di ampliare la nostra gamma espressiva e di rendere al meglio la nostra musica, esaltando ogni sfumatura. Abbiamo cercato musicisti che potessero non solo suonare, ma anche trasformare il suono.
Seb Martel, con il suo originalissimo approccio chitarristico, crea atmosfera e colore, aggiungendo trame e profondità uniche alle composizioni.
Il violino è la spina dorsale melodica e la voce narrativa.
Il basso è l’ancora ritmica e armonica che dà la base per spaziare.
Natale La Riccia è il maestro dei “disegni ritmici” ottenuti con oggetti, percussioni e una complessa serie di effetti con pedalini, creando la trama sottile.
È un equilibrio di forze che ha reso la nostra dimensione live più teatrale e immersiva, quasi un film suonato dal vivo.

5. Il tour italiano ha registrato un grande successo. Com’è stato ritornare nei club del vostro Paese dopo tanti anni di vita artistica in Europa?
È stato un ritorno carico di adrenalina e tanto affetto. In Italia i club hanno un’energia indescrivibile, molto più diretta e viscerale rispetto ad altri Paesi europei, dove il pubblico è a volte più composto. Dopo tanti anni in Europa, ritrovarsi a casa, vedere il pubblico che ti aspetta e che ti accoglie con quella passione… è un’emozione che ti ricarica. Ci ha ricordato da dove veniamo e ci ha dato la forza per proseguire questo viaggio.

6. Avete appena annunciato un concerto speciale allo Studio de l’Ermitage di Parigi. Cosa rappresenta per voi tornare proprio lì, nella città che vi ha adottati quando eravate musicisti di strada?
Parigi è la nostra città adottiva, quella che ci ha visti passare dalle suonate per strada alle sale più importanti. Lo Studio de l’Ermitage per noi rappresenta un punto d’arrivo e un nuovo inizio. Tornare lì con questo nuovo concept album, è come chiudere un cerchio: è la conferma che il nostro sogno si è realizzato, mantenendo intatta la nostra identità.

7. Nel concept dell’album, Mala veste di bianco e Braga di nero: come nasce questa dualità visiva e che ruolo ha nella narrazione del disco?
Questa dualità è la chiave di volta del concept visivo di “D-Segni”.
Il Nero rappresenta la memoria, l’ombra, il tempo passato. È la base solida, come il ricordo che ti tiene ancorato.
Il Bianco rappresenta la rinascita, la luce che si fa strada, la speranza e l’energia vitale. È il lato che cerca la melodia, la poesia, l’evasione.
Questa contrapposizione è la narrazione stessa del disco: il dialogo costante tra ciò che è stato e ciò che può essere.

8. Le nove tracce sembrano capitoli di un unico racconto. Qual è l’immagine o la sensazione da cui siete partiti per costruire l’ossatura narrativa dell’album?
Siamo partiti dalla sensazione della sospensione. L’immagine è quella di un viaggio interiore, è il percorso di un’anima che accetta la perdita per poter rinascere, proprio come un seme deve morire per far nascere un albero.

9. Laurent Dupuy, due volte vincitore del Grammy, ha curato il mix. Com’è stato collaborare con una figura di questo calibro e quanto ha inciso sul sound finale di “D-Segni”?
Lavorare con un professionista del calibro di Laurent Dupuy, due volte vincitore del Grammy, è stata anche questa volta una lezione di precisione e di eleganza sonora. Laurent è riuscito a prendere la nostra musica, che è complessa e piena di suoni acustici che si mescolano, e a darle una trasparenza incredibile. Ogni suono ha trovato il suo spazio, senza sacrificare la profondità emotiva. Ha inciso sul sound finale, esaltando quel senso di “sospensione” e di “cinematograficità” che cerchiamo costantemente.

10. Il singolo “Requiem per Alieni” è accompagnato da un videoclip firmato Alessandro Rak. In che modo la sua visione cinematografica ha dialogato con la vostra musica?
La visione di Alessandro Rak si è incastrata perfettamente perché lui sa creare mondi visivi che sono allo stesso tempo alieni e profondamente umani. Il suo tratto ha dato un corpo visivo al nostro suono. C’è stata una sintonia immediata: la sua animazione è la perfetta colonna sonora visiva della nostra musica.

11. Non è la prima volta che lavorate con Rak: tra “L’arte della felicità”, “Gatta Cenerentola” e “Rukeli”, come è cresciuto nel tempo questo rapporto artistico?
Il rapporto con Alessandro Rak è cresciuto negli anni organicamente, da una stima profonda a una vera e propria collaborazione creativa, ma con diversi passaggi.
All’inizio, con “L’arte della felicità” e “Gatta Cenerentola”, la nostra musica era a servizio della sua immagine e della sua visione cinematografica.
Con “Rukeli”, Rak ha utilizzato un nostro brano a cui è particolarmente affezionato – lo stesso che tra l’altro aveva già inserito in “L’arte della felicità”. Non è stata una co-creazione musicale da zero.
È proprio a partire da quel momento, da “Rukeli”, che si è accesa l’idea di fare qualcosa di nuovo e di più integrato. Quella scintilla ha portato a un progetto successivo che si è concretizzato in seguito.
Oggi, con “Requiem per Alieni” per “D-Segni”, la collaborazione è finalmente reciproca: lui ha interpretato la nostra musica.
Siamo cresciuti come una famiglia allargata che parla la stessa lingua estetica

12. Tornando indietro nel tempo: siete nati come musicisti di strada, poi avete percorso l’Europa fino a Parigi. Qual è il ricordo più potente dei vostri primi anni di vita nomade?
È la sensazione fisica di dipendere interamente dalla musica: il freddo, la stanchezza, e poi la gratificazione di vedere la gente fermarsi e riempire il cappello. Quella connessione umana immediata ci dava la certezza di poter sopravvivere con la nostra arte. Una libertà brutale, ma totale.

13. Lungo il vostro percorso avete suonato in più di 1500 concerti, passando da sobborghi parigini alla Philarmonie de Paris. Come è cambiato il vostro modo di stare sul palco in questi vent’anni?
Il modo di stare sul palco è cambiato profondamente. Dalla necessità di catturare l’attenzione in un ambiente caotico come la strada, dove l’imperativo era l’energia grezza, siamo passati alla necessità di raccontare e immergere. Passare dai sobborghi alla grande sala richiede una grande disciplina. Oggi, non cerchiamo più di catturare il pubblico, ma di invitarlo dentro il nostro universo. Siamo più consapevoli del silenzio, delle dinamiche, e dell’uso del palcoscenico come spazio teatrale, non solo musicale.

14. La vostra musica è spesso definita visionaria, cinematografica, “sospesa”. Vi riconoscete in queste definizioni o preferite una chiave diversa per raccontare chi siete oggi?
Ci riconosciamo pienamente in queste definizioni.
Se dovessimo aggiungere una chiave, diremmo che oggi la nostra musica, si serve di una “memoria nomade” ed evolve in un stile “Post-World” per creare un linguaggio universale attuale che evoca viaggio, distanza e casa dell’anima.

15. In “D-Segni” si percepiscono sacrifici, distanze, viaggi infiniti. C’è un momento in cui avete pensato di mollare tutto? E cosa vi ha tenuti in piedi?
Certo che ci sono stati, come per tutti. Il dubbio più grande arrivava nei momenti di maggiore stanchezza fisica ed emotiva, durante i lunghi viaggi in furgone. C’era un momento in cui ci siamo chiesti se valesse la pena sacrificare tutto per un sogno così precario. Ciò che ci ha tenuto in piedi è stata l’amicizia inossidabile e la dipendenza dalla musica.

16. La dimensione internazionale è sempre stata centrale per voi. Quanto è importante per i Guappecartò continuare a portare la propria musica fuori dai confini italiani?
I Guappecarto’ sono nati come musicisti di strada. La nostra musica è un incrocio di culture. Mantenere la dimensione internazionale è cruciale per la nostra identità artistica, perché ci permette di contaminarci, di non chiuderci in un unico linguaggio. Portare la nostra musica fuori dall’Italia significa restare fedeli al nostro passato nomade e alla nostra vocazione di cittadini del mondo sonoro.

17. Tra colonne sonore, album sperimentali e live immersivi, qual è, secondo voi, il filo rosso che lega tutte le vostre opere?
Il filo rosso che lega tutte le nostre opere, dalle colonne sonore agli album sperimentali, è la poetica della testimonianza del viaggio.
È la ricerca costante di un suono che possa raccontare una storia, che possa evocare un film nella testa dell’ascoltatore. C’è sempre un elemento di malinconia che si trasforma in energia vitale e irrefrenabile. La musica come un inno alla resilienza umana.

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