AI

Spotify si trova al centro di una nuova controversia legata all’uso dell’AI nella musica. Al centro del caso ci sono alcuni brani caricati sulla piattaforma e attribuiti a Blaze Foley e Guy Clark, artisti deceduti rispettivamente nel 1989 e nel 2016. Le tracce, palesemente realizzate tramite intelligenza artificiale e prive di qualsiasi autorizzazione da parte degli eredi o delle etichette discografiche, sono apparse all’improvviso sulle loro pagine ufficiali Spotify, sollevando interrogativi etici e legali.

Le canzoni incriminate, pubblicate tramite SoundOn — il distributore musicale di proprietà di TikTok — risultavano associate a una misteriosa entità chiamata Syntax Error, priva di qualsiasi legittimo legame con il mondo della discografia. Craig McDonald, proprietario di Lost Art Records e curatore del catalogo di Foley, ha denunciato il fatto. «È solo spazzatura algoritmica, nulla che abbia a che vedere con il Blaze che conosciamo», ha dichiarato McDonald.

Spotify ha rimosso i brani dopo le segnalazioni, affermando che violavano le proprie policy contro i contenuti ingannevoli e non autorizzati. Tuttavia, la vicenda ha messo in evidenza una falla nei sistemi di controllo preventivo della piattaforma, incapace di arginare la pubblicazione di contenuti generati da intelligenze artificiali che sfruttano nomi e immagini di artisti scomparsi.

Non è il primo caso che evidenzia la vulnerabilità di Spotify di fronte all’ondata di contenuti musicali generati da AI. Già lo scorso settembre, un uomo del North Carolina era stato accusato di aver frodato Spotify e altre piattaforme per 10 milioni di dollari caricando migliaia di brani falsi, riprodotti da bot per gonfiare gli incassi. Più recentemente, il caso della band inesistente Velvet Sundown — che aveva raggiunto quasi mezzo milione di ascoltatori mensili prima di rivelarsi un esperimento AI — ha confermato quanto sia semplice aggirare i controlli delle piattaforme streaming.

Dietro l’operazione legata a Foley e Clark si cela il nome Syntax Error, un marchio senza alcun riscontro reale nel mondo della musica, e identificato da Reality Defender come probabile artefice di contenuti deepfake. Anche le immagini profilo degli artisti, evidentemente alterate o create da AI, confermano la natura fraudolenta delle pubblicazioni.

La vicenda ha riacceso il dibattito sull’uso non autorizzato dell’intelligenza artificiale per riprodurre voci e stili di artisti, specialmente quelli scomparsi, senza il consenso degli eredi o delle etichette. Oltre alla violazione del copyright, in gioco c’è anche la tutela del diritto all’immagine e dell’eredità artistica. «Non si tratta solo di un illecito, ma di un danno alla memoria di musicisti che non possono più difendersi», ha sottolineato McDonald.

Spotify ha dichiarato di aver segnalato l’accaduto a SoundOn, ma il sospetto, alimentato da diversi osservatori, è che la piattaforma abbia scarso interesse a bloccare preventivamente simili abusi, dal momento che ogni stream — anche quello di un brano falso — genera profitto. La facilità con cui questi contenuti sono stati caricati, infatti, evidenzia lacune sistemiche che vanno ben oltre il singolo episodio.

Il caso di Foley e Clark si inserisce in un contesto più ampio di crescente preoccupazione nel settore musicale. A febbraio oltre mille artisti, tra cui Kate Bush e Annie Lennox, avevano protestato contro l’uso non autorizzato di opere per addestrare modelli AI, pubblicando un album muto come gesto simbolico.

Spotify, intanto, continua a trovarsi sotto accusa per un sistema di moderazione percepito come inefficace e poco trasparente.

Foto su licenza Depositphotos

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