Irene Grandi torna con Oro e rosa, un progetto che segna un momento di passaggio, una nuova alba personale e artistica; in una lunga intervista rilasciata a Vanity Fair, la cantante riflette sul proprio percorso, sullo stato attuale della musica italiana e sul suo rapporto con Sanremo, tra luci, ombre e cambiamenti di un’industria che non assomiglia più a quella in cui è cresciuta.
Per Irene Grandi, Oro e rosa è un disco di rinascita. I due colori del titolo – simbolo insieme di tramonto e alba – rappresentano la fase di transizione che l’artista sta vivendo.
«Mi sento più all’alba, sto uscendo da un periodo di buio artistico. Ci sono momenti in cui è giusto esporsi e altri in cui bisogna ritirarsi per creare. Ora sto tornando alla luce», racconta.
Una riflessione che oggi, nell’epoca della frenesia digitale, sembra quasi rivoluzionaria: «Oggi se un artista si assenta sei mesi sembra sparito. Io faccio fatica a stare dietro a questi ritmi».
“La musica è troppo veloce e improvvisata”
Il nodo centrale del pensiero di Irene Grandi riguarda proprio l’industria musicale contemporanea:
«La musica richiede tempo. Oggi è tutto più improvvisato: chiunque può dirsi cantante o produttore. E la qualità ne risente».
Pur dichiarando di non essere nostalgica a tutti i costi, l’artista ammette che negli anni Novanta il panorama musicale fosse più ricco di originalità e scene artistiche riconoscibili:
«Trent’anni fa c’erano proposte innovative, gruppi come Almamegretta o 99 Posse che portavano qualcosa di nuovo. Oggi mi sembra che abbia vinto il copia-incolla».
Molti artisti della sua generazione hanno scelto collaborazioni con rapper per rinnovare l’immagine. Irene Grandi, però, preferisce restare fedele alla propria identità:
«Sono cresciuta con il rock e il blues. Alcuni rapper mi piacciono, come Fabri Fibra o Marracash, ma non vedo brani miei adatti alle loro corde».
Un rifiuto non ideologico, ma artistico.
Irene Grandi non ha parole dure, ma lucidissime, per il Festival:
«Non ho una canzone adatta per Sanremo 2026, non mi candido. E poi mi sentirei un po’ fuori luogo: il Festival è molto orientato verso urban, dance e nuove generazioni».
Riguardo alla gestione Amadeus, con cui ha espresso dissenso in passato, chiarisce che non è questione personale: è il cambio di direzione a renderla meno affine a quella cornice.
Sul futuro, però, non chiude la porta:
«Per gli anni prossimi, chissà. A Sanremo ci sono andata spesso, ma oggi il contesto è diverso».
L’artista analizza con lucidità la trasformazione del mercato musicale:
«Oggi o si è giovanissimi, quindi la novità, o si è anziani, pronti per il revival. Per noi che stiamo nel mezzo non c’è spazio».
È anche per questo che, dal 2018, Irene Grandi ha scelto l’indipendenza:
«Le major non avevano più entusiasmo per me. Mi sono sentita messa da parte. Con lo streaming e i nuovi generi, all’inizio ho perso la terra sotto i piedi. Ma mettersi in proprio era l’unica via».
Una scelta difficile, ma liberatoria:
«Essere indipendente è durissimo, ma la libertà non ha prezzo. Ho incontrato persone innamorate della musica e ho potuto esplorare nuovi suoni».
La vera rivoluzione personale, però, avviene oltre dieci anni fa:
«Nel 2010 ho spento il motore. Vivevo nella paura del fallimento. Irene Grandi era diventata un personaggio a cui avevo dato troppo. Mi sono fermata per non bruciarmi».
Il periodo successivo, però, non è stato un facile “ritorno alla normalità”:
«Intorno a me era cambiato tutto. Ma ho capito che non potevo inseguire il successo materiale. Il tour con Stefano Bollani nel 2012 mi ha cambiato la vita: è lì che ho deciso di esplorare nuovi suoni, tornare al blues, uscire dal pop».
Sulla percezione del pubblico e della critica, Irene Grandi risponde con sincerità:
«Forse sì, a volte mi sento sottovalutata. Ma ho ricevuto complimenti sinceri da persone che stimo, e questo basta. Se non si fanno gli stadi come Vasco o Jovanotti, tanto vale prendersi le proprie libertà».
Da Oro e rosa emerge una verità: Irene Grandi è un’artista che ha scelto di rallentare in un mondo che corre.
Non si adegua alle mode, non forza collaborazioni, non rincorre Sanremo a ogni costo.
Preferisce la sostanza alla forma, la qualità alla quantità, la libertà al compromesso.
E in un’epoca in cui tutto sembra bruciare in fretta, questa visione potrebbe essere più contemporanea che nostalgica.

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