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Plant ai Magazzini Generali: il debutto solista tra caos, emozione e verità

Plant Maldivita cover

Plant assoluto protagonista del suo debutto solista, con un live ai Magazzini Generali di Milano, tra caos, emozione e verità.

Milano, Magazzini Generali. È buio. La musica si interrompe all’improvviso e per qualche secondo resta solo il rumore del pubblico che lo chiama a gran voce. Poi, sullo schermo alle spalle del palco, parte un video: un collage di voci che lo incalzano, quasi lo inseguono. “Perché non fai più niente?”, “Che fine hai fatto?”, “Dove sei?”. L’ultima, più nitida, arriva come una scossa: “Ricordati chi sei”. È il segnale. Le luci esplodono, la folla urla, e Plant fa il suo ingresso tra fumo e stroboscopiche. Parte Maldivita, e lui non perde un secondo per mettere in chiaro il tono della serata: “Chi non salta è un figlio di puttana!”.

Da quel momento il concerto, il primo del suo nuovo percorso solista, si trasforma in una sorta di rito collettivo. Plant si muove sul palco con l’energia di chi torna a respirare dopo troppo tempo sott’acqua. “Milano, mi siete mancati! Voglio sentire un cazzo di casino dalla mia famiglia!”, grida, e la platea risponde in pieno. Il pubblico è variegato — giovanissimi, nostalgici della scena emo, curiosi, amici, fan storici — ma si muove compatto, seguendo l’artista in ogni suo scarto tra provocazione e confessione.

“Ve lo dico in anteprima,” urla dopo la seconda canzone, “due giorni fa ero ricoverato in ospedale… mi hanno diagnosticato… il mal di vita!”. La pausa è teatrale, ma dietro l’ironia si percepisce un fondo reale di stanchezza, di quella malinconia lucida che attraversa tutto il suo nuovo lavoro. Il pubblico ride, poi esplode di nuovo in un coro. Plant scandisce: “Quando dico Maldi, rispondete vita!”. È il suo modo di esorcizzare ciò che racconta nel disco: la distanza tra iperconnessione e solitudine, la sensazione di vivere in un mondo filtrato.

Maldivita è la malattia della nostra generazione,” ha spiegato in più occasioni. “Siamo tutti così iperconnessi ma completamente scollegati, pieni di stimoli ma non più capaci di provare emozioni. Possiamo avere tutto ma ci sentiamo vuoti.”

L’atmosfera ai Magazzini Generali è tutt’altro che statica. Plant provoca, scherza, improvvisa. “Non siamo al concerto di Marco Mengonino, di Laura Pausinina!”, urla. “Siete al concerto di Plantino! Più casino!”. C’è autoironia, ma anche un manifesto di diversità: un voler rimarcare l’appartenenza a una scena alternativa, disordinata e viva.

Sul palco con lui c’è una band solida — “il goth, il batterista, Luca al basso, King Sergione, Moka… quattro anni che m’intossica con le sue canne!” — e diversi ospiti. “Il primo ospite è il piccolo me,” scherza, prima di introdurre il fratello Simone, dodici anni appena. “Al mio tre voglio un bordello per mio fratello! Vai bene a scuola? Sì? Allora ci vediamo nel back, vai a berti due cose…”. La spontaneità è totale, quasi punk nel modo in cui rompe qualsiasi formalità.

«È stato un anno difficile, ma sono ancora qui»

A tratti, però, il tono cambia. Tra una battuta e l’altra, Plant si concede momenti di vulnerabilità. “Mi siete mancati un botto,” dice con voce più bassa. “È stato un anno difficile. Un anno fa pensavo di lasciare la musica, di tornare al Sud. È stato grazie a voi se sono ancora qui.”

L’applauso è lungo. Poi la voce torna a farsi ruvida: “Chi non salta ora può anche andarsene a casa!”.

La sua è una performance che alterna caos e confessione, tra un pogo improvvisato e discorsi che sfiorano il manifesto sociale. “Basta mettere etichette alla musica,” dice. “Mi sono rotto di essere ghettizzato. Chi è punk qui? Non esiste shame, non esiste vergogna. Siamo tutti uniti dallo stesso trauma, dalla stessa tristezza.”

Emozioni e provocazioni

Ci sono episodi surreali, ma anche momenti teneri: “Il mio cuore appartiene a una persona,” confessa. “È qui in sala, la mia emo girl. Questa canzone è per lei. Facciamo crollare i Magazzini!”

Plant gioca costantemente sul confine tra ironia e verità, come se ogni battuta nascondesse un frammento di vulnerabilità. Quando una fan gli urla “Ti amo!”, lui risponde secco: “Non me lo dire più, sennò finiamo su Un giorno in pretura!”. Il pubblico ride, ma dietro le provocazioni resta sempre il senso di un artista che sta ancora imparando a convivere con se stesso.

«La droga non è cool, vi toglie il cervello»

Nella seconda parte dello show, l’atmosfera cambia ancora. Le luci si abbassano, la voce si fa più ferma: “Voglio dire una cosa seria. Su internet vedo schifezze, non capisco come si possa fare violenza sulle donne. Ci metto le palle sul fuoco che nessuno qui lo farebbe. Fanculo ogni forma di violenza!”. Poi, dopo un applauso, aggiunge: “La droga non è cool, vi toglie il cervello. Ho passato un periodo buio, ho perso amici, genitori, me stesso. Ora che mi sono rialzato, i miei genitori sono qui stasera. Voglio un cazzo di casino per loro!”.

Le luci dei cellulari si accendono. Plant si ferma, guarda il pubblico e ammette: “La felicità l’ho trovata qui con voi stasera. Vi amo tanto tanto tanto”. È uno dei momenti più intensi del concerto: il caos lascia spazio alla commozione, e per qualche minuto anche il pubblico più rumoroso sembra trattenere il fiato.

«Voglio cambiare questo piattume di musica»

In un altro momento, Plant riflette sulla scena musicale che lo circonda: “Io ci credo in quello che stiamo facendo. Vedo troppi artisti grandi che ci ostacolano perché siamo sporchi, veri. Voglio cambiare questo piattume di musica!”. Poi introduce gli artisti che hanno aperto la serata, tre nomi della scena alternativa emergente: “Sono bravissimi, senza regole, come lo eravamo noi. Siamo tutti diversi ma uguali tra noi. Io li voglio spingere, perché nessuno l’ha fatto con noi.”

È una dichiarazione d’intenti che conferma la visione di Plant: quella di un artista che vuole farsi portavoce di una generazione ai margini, fragile ma combattiva.

«Siamo una cosa sola»

Il finale del concerto è una vera esplosione di energia. Plant invita i fan sul palco, apre un cerchio per il pogo, si lancia tra loro, urla “Siamo una cosa sola!”. Poi, quasi senza preavviso, il tono torna serio: “Lì fuori c’è odio, e l’odio alimenta altro odio. Ma qui dentro no. Qui siamo liberi. Ognuno può essere come gli pare, vestirsi come gli pare, amare chi vuole. Siamo qui per spezzare la catena dell’odio.”

Il live sembra chiudersi, ma pochi minuti dopo Plant torna sul palco gridando “Bastardoni!”. Un ultimo assalto, un ultimo abbraccio collettivo, che diventa una catarsi condivisa. “Grazie davvero di tutto,” dice alla fine. “Ci vediamo prestissimo. Voglio un casino per voi!”.

Una confessione a cielo aperto

Ai Magazzini Generali non è andato in scena un concerto perfetto, ma qualcosa di più umano e disordinato: una confessione a cielo aperto. Plant ha alternato rabbia, ironia, commozione, provocazione, costruendo un ponte diretto con chi lo ascolta.

Con Maldivita, disco che lui stesso definisce “una seconda possibilità”, sembra aver ritrovato la bussola: “È il disco che ho sempre voluto ascoltare, perché non insegue regole standard o aspettative. L’ho costruito partendo da me, dalle mie idee, dai miei limiti.”

In fondo, la serata ai Magazzini Generali è stata esattamente questo: un ritorno alla verità, anche quando è scomoda. Tra sudore, risate e ferite aperte, Plant ha ricordato a tutti — e a se stesso — chi è.

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