LAYERS è il nuovo album del pianista e compositore internazionale Fabrizio Paterlini, realizzato insieme a LoopArc e pubblicato da M.A.S.T. Release / Memory Recordings in licenza esclusiva a Believe. Con questo progetto, Paterlini inaugura una fase coraggiosa della sua carriera, prendendo le distanze dal minimalismo intimo che lo ha caratterizzato finora.

Il disco introduce un approccio completamente diverso, basato sulla composizione verticale e sull’interazione dal vivo tra tre musicisti — pianoforte e synth, violino e violoncello — che costruiscono la musica in tempo reale. Ogni brano nasce da sessioni di live-looping, dove le sonorità si sviluppano in modo naturale attraverso sovrapposizioni spontanee, dando vita a strutture musicali che si formano “strato dopo strato”, proprio come suggerisce il titolo.

Intervista a Fabrizio Paterlini, il nuovo album “Layers”

Partiamo da Layers: un titolo che evoca sovrapposizione, profondità e trasformazione. Cosa rappresenta per te questa parola e come si riflette nel tuo nuovo lavoro?

Layers è una parola che descrive perfettamente il modo in cui concepisco oggi la musica. È un insieme di strati — sonori, emotivi, temporali — che convivono e si trasformano nel tempo. Ogni brano nasce da un livello semplice e cresce, si arricchisce, prende vita attraverso l’interazione tra strumenti, texture e spazio. È un disco che racconta la complessità della semplicità: ciò che sembra essenziale spesso nasconde moltissime sfumature.

Hai raccontato che il brano “Layers” era nato come una bonus track, ma è poi diventato la title track dell’album. Quando hai capito che racchiudeva davvero lo spirito del progetto?

All’inizio “Layers” doveva essere solo un esperimento, un brano collaterale. Ma più lo ascoltavo, più mi rendevo conto che lì dentro c’era l’essenza di tutto: il dialogo tra pianoforte e synth, il respiro ritmico, l’idea di costruzione per accumulo. È stato come se quel pezzo avesse preso per mano gli altri, imponendosi naturalmente come centro del progetto.

Il dialogo tra pianoforte, Rhodes e texture elettroniche è centrale nel singolo. Come hai lavorato sull’equilibrio tra questi elementi, mantenendo intatta la tua identità sonora?

Ho cercato di non trattarli come strumenti separati, ma come parti di un unico corpo sonoro. Il pianoforte rappresenta la parte emotiva, il Rhodes la morbidezza del tempo che scorre, mentre i synth e le texture elettroniche sono la pelle che avvolge tutto. L’obiettivo era farli convivere in modo naturale, senza gerarchie. La mia identità passa proprio da lì: dal modo in cui elementi diversi riescono a fondersi e respirare insieme.

In Layers ti allontani dal minimalismo dei tuoi lavori precedenti, abbracciando una dimensione più collettiva e dinamica. È stato un processo naturale o una scelta voluta per rompere un equilibrio consolidato?

È stato un processo naturale, ma necessario. Dopo anni di introspezione e lavori più “solitari”, sentivo il bisogno di aprire il mio linguaggio, di condividere il suono con altri. Il minimalismo rimane come approccio mentale — l’essenzialità, il respiro — ma stavolta è inserito in una struttura viva, in movimento. In questo senso Layers è una sorta di rinascita, una nuova forma di equilibrio.

Hai lasciato carta bianca ai musicisti che ti accompagnano, come Marco Remondini e Stefano Zeni. Com’è stato per te, abituato a scrivere ogni parte, affidarti completamente alla loro sensibilità?

Liberatorio. Quando lavori con musicisti come Marco e Stefano, che hanno una profondità espressiva rara, l’unica cosa intelligente da fare è fidarti. Io ho tracciato le linee guida, ma poi ho lasciato spazio alla loro voce. Quello scambio continuo tra di noi ha dato vita a qualcosa che non sarebbe mai potuto nascere da solo in studio davanti al pianoforte.

Il concetto di stratificazione attraversa anche la copertina dell’album. Quanto è importante per te la componente visiva nel racconto musicale?

È fondamentale. L’immagine è parte della musica. La copertina di Layers riflette l’idea di costruzione e profondità, di elementi che si sovrappongono senza nascondersi. Ogni livello lascia intravedere il precedente, come nella musica: nessun suono cancella quello che c’è stato, semplicemente lo trasforma.

In Layers si percepisce una fusione molto organica tra acustico ed elettronico. Che ruolo ha avuto la tecnologia nella tua evoluzione artistica, e come riesci a farla dialogare con l’emozione del pianoforte?

La tecnologia per me è uno strumento di umanità, non il contrario. Mi affascina quando permette di ampliare l’emozione, non di sostituirla. Uso synth e processori di suono per allargare lo spazio, per creare ambienti che accolgano il pianoforte e lo facciano respirare in un contesto più ampio. L’obiettivo è sempre lo stesso: far emergere l’essenza, non nasconderla.

Hai registrato il video al Pink Noise di Mantova, un ambiente che sembra amplificare la dimensione materica del suono. Quanto conta per te il luogo nella creazione musicale?

Il luogo è sempre un personaggio, non uno sfondo. Il Pink Noise è uno spazio che conosco bene: ha una luce, un’aria e una sonorità che influenzano il modo di suonare. Registrare lì significa sentirsi parte di qualcosa di fisico, reale. Credo molto nell’energia dei luoghi — anche per questo Layers è un disco profondamente legato a Mantova.

Negli anni hai sperimentato moltissimo, dal piano solo all’elettronica, fino al grunge di Attitude. Come convive oggi questa pluralità di linguaggi nel tuo percorso artistico?

Convive in modo naturale, perché rappresenta semplicemente le mie diverse anime. Ogni progetto nasce da un’urgenza diversa: Attitude è stato un modo per raccontare il mio legame con il rock, Layers invece porta avanti la parte più visionaria, quella che unisce pianoforte, archi ed elettronica. Non vedo contraddizioni: tutto fa parte di un’unica traiettoria.

I tuoi tour ti hanno portato in tutto il mondo, dall’Europa alla Cina. Come cambia il modo in cui il pubblico percepisce la tua musica in contesti così diversi?

Ci sono differenze profonde. In Asia l’ascolto è intimo, quasi spirituale: il pubblico vive la musica come un’esperienza di meditazione collettiva. In Europa l’approccio è più analitico, attento ai dettagli. Queste diversità arricchiscono anche me come musicista: mi fanno capire che la musica, pur restando la stessa, si trasforma a seconda di chi l’ascolta.

I tuoi brani sono spesso utilizzati in film e serie tv. Ti piace pensare alla tua musica come a una colonna sonora per immagini e storie?

Assolutamente sì. Anche quando scrivo musica “autonoma”, penso sempre in termini visivi. Ogni nota, ogni pausa ha un’immagine dentro. È naturale che il mio linguaggio si presti a raccontare storie, perché nasce proprio dall’idea di evocare luoghi ed emozioni più che descriverli.

Chris Evans ha dichiarato di amare Rue des Trois Frères: cosa hai provato quando hai scoperto che un tuo brano aveva raggiunto anche Hollywood?

È stato surreale e bellissimo allo stesso tempo. Non tanto per la celebrità in sé, ma per l’idea che una mia composizione, nata in un contesto intimo, possa arrivare così lontano. È la dimostrazione di quanto la musica, quando è sincera, non abbia confini.

Dopo Riverscape e Summer Stories, Layers sembra rappresentare una nuova fase di libertà creativa. Cosa hai imparato su te stesso durante questo percorso?

Ho imparato che la libertà arriva quando smetti di inseguire qualcosa e ti permetti di esplorare. Con Layers ho ritrovato il piacere del rischio, dell’imprevisto, dell’improvvisazione. Ho capito che non serve avere tutto sotto controllo: a volte la parte più viva della musica nasce proprio dove smetti di governarla.

Sei un artista indipendente e hai fondato la tua etichetta, Memory Recordings. Quanto è importante per te mantenere il controllo totale sulla tua musica e sulla sua diffusione?

È fondamentale. La mia indipendenza è la mia forza. Significa poter scegliere i tempi, le persone, i modi. Memory Recordings mi permette di costruire una visione coerente e di proteggere la mia musica da compromessi inutili. È anche un modo per restituire qualcosa agli artisti che pubblicano con me, offrendo loro l’esperienza che ho maturato nel tempo.

Cosa rappresenta per te oggi il pianoforte, dopo tanti anni di carriera e di esplorazioni sonore?

Il pianoforte rimane il mio centro. È il punto di partenza e quello di ritorno. Ogni volta che mi siedo davanti ai tasti, tutto si azzera: non c’è carriera, non c’è passato, solo il presente del suono. È l’unico luogo dove riesco davvero a essere me stesso.

Infine, se dovessi descrivere Layers con una sola immagine, quale sarebbe?

Una superficie d’acqua mossa dal vento. Ogni onda è un dettaglio, un movimento che nasce da un’altra forza invisibile. È calma e movimento allo stesso tempo. Esattamente come Layers.

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