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Intervista a Irene Grandi, che lo scorso 14 novembre ha pubblicato il nuovo album di inediti Oro e Rosa, a cinque anni dal precedente lavoro. In questo lasso di tempo, l’artista ha ritrovato le proprie radici con Io in Blues, celebrato 30 anni di carriera con il tour Fiera di Me e partecipato al musical internazionale The Witches Seed.

Il titolo unisce i colori dell’alba e del tramonto, simboli di inizio e fine che rappresentano la tensione emotiva dell’intero progetto. L’album esplora il confine tra stati d’animo diversi e il modo in cui uno sguardo può cambiare il senso delle nostre storie. Al centro c’è l’amore: cercato, trovato, perduto, e la lotta quotidiana per mantenere un equilibrio o lasciar andare.

Irene descrive questo percorso come un momento sospeso, paragonato a una ghianda pronta a germogliare nel buio fertile della trasformazione. È il coraggio di entrare nell’ignoto con speranza, guidati da ispirazione, esperienza e fiducia. Le undici tracce attraversano pop contemporaneo, elettro-pop anni ’80, blues e rock, valorizzando la voce e lo stile inconfondibile della cantante.

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Intervista a Irene Grandi, il nuovo album “Oro e Rosa”

Irene, cosa rappresenta l’album “Oro e Rosa” nel tuo percorso artistico?
“Oro e Rosa” è una fotografia molto fedele degli ultimi due-tre anni della mia vita. È il primo disco in cui sento di essere riuscita a raccontare davvero il mio presente, senza filtri e senza distanze temporali. È un album che parla di trasformazione: ho scelto i colori oro e rosa perché sono le tonalità del tramonto e dell’aurora, momenti in cui la luce cambia, si trasforma, proprio come è successo a me in questo periodo.

Quando hai capito che questa dicotomia – luce/ombra, inizio/fine – sarebbe diventata il centro dell’album?
L’ho capito strada facendo, perché stavo vivendo un periodo molto intenso di cambiamenti, sia personali che professionali. Dopo il Covid ho dovuto riprendere in mano il mio percorso musicale, riorganizzare il team, cambiare agenzia e management. Questi sono passaggi delicati per un artista, perché significano rimettere in discussione abitudini, certezze, dinamiche consolidate. Nel frattempo cercavo nuovi autori, nuove collaborazioni, ma allo stesso tempo ho ritrovato vecchi amici con cui tornare a lavorare. Era davvero un momento di metamorfosi totale.

Anche nella tua vita privata stavi vivendo una stagione di cambiamento. Quanto questo ha influito sul disco?
Tantissimo. Ho vissuto trasformazioni profonde, l’ultima delle quali un trasloco da un luogo all’altro, una casa nuova, un nuovo contesto. Tutto questo è entrato nell’album, soprattutto in un brano come Traslochi dell’anima. È un disco che si nutre del mio vissuto più intimo: cambiamenti, spostamenti, nuove consapevolezze.

Nel disco ritorna spesso il tema del “lasciar andare”, un concetto che è ricorrente anche nel tuo repertorio storico. Perché è così centrale per te?
Perché, paradossalmente, io non sono brava a lasciar andare. Mi affeziono molto alle persone e alle situazioni, quindi ho bisogno di ricordarmi che il cambiamento è necessario. Per questo tema ritorna spesso nelle mie canzoni: è un promemoria a me stessa. Lasciare andare permette di rinnovarsi, di soffrire meno, di attraversare nuove rinascite. E per rinascere, a volte, bisogna “morire” simbolicamente, chiudere capitoli, sganciarsi dal passato.

Questa trasformazione riguarda anche l’amore, che nel disco assume forme diverse.
Sì, perché l’amore non è mai un concetto statico. Nel disco racconto l’amore trovato, perduto, trasformato. E soprattutto il coraggio di affrontare l’ignoto: chiudere una relazione, imparare a stare da soli, oppure cambiare idea su se stessi o sulla propria carriera. Anche il mio passaggio dal major alla totale indipendenza nasce da questo: perdere un supporto concreto, ma guadagnare libertà creativa, tempo, autenticità. La libertà, in fondo, è sempre un atto di trasformazione.

Musicalmente “Oro e Rosa” è un disco molto libero. Ci sono suggestioni anni ’80, blues, rock, pop. Da dove arriva questa varietà?
Dal mio percorso. Festeggiare i trent’anni di carriera con il tour Fiera di me mi ha ricordato quante contaminazioni ho attraversato: blues, soul, rock, cantautorato, pop elettronico. Ho lavorato con autori capaci di evocare queste sfumature e di riportare alla luce parti diverse di me. In questo album ritrovo la grinta, la riflessione, il ritmo e anche la voglia di sperimentare con qualche ballad più intima. È una sintesi molto onesta del mio viaggio musicale.

Le tue esperienze musicali fuori dal pop quanto hanno influito su questo nuovo equilibrio?
Tantissimo. I progetti paralleli mi hanno ridato energia e leggerezza. Il mercato discografico oggi è complicato, è difficile emergere con un album vero e proprio. Fare attività alternative, più agili, mi permette di divertirmi, esplorare, incontrare nuovi pubblici. Quando torni al pop dopo aver respirato altro, lo fai con entusiasmo rinnovato. E ritrovi anche colori nella tua voce che magari avevi dimenticato.

A proposito di progetti fuori dal pop, la collaborazione con Stewart Copeland è stata un’esperienza unica. Cosa ti ha colpito di lui?
La sua curiosità infinita. Mi ha invitata a partecipare alla sua opera rock, un progetto completamente folle e affascinante: musica originale, scrittura per il canto lirico, contaminazioni impensabili. In lui ho riconosciuto un artista che non ha paura di sconfinare. Mi ha definita “rock” proprio per la mia attitudine ad accettare sfide così diverse dal mio percorso, con coraggio e senza calcoli. È stato un complimento enorme. Ha visto in me la stessa spinta istintiva che lo muove.

Nel disco ci sono due brani particolarmente forti: “In un attimo” e “7”. Cosa rappresentano per te?
Sono due pezzi fondamentali. In un attimo parla di memoria, del rischio di dimenticare i nostri sogni mentre la vita scorre, soprattutto quando attraversiamo crisi personali o artistiche. Io stessa ho vissuto un periodo in cui pensavo di aver smarrito il desiderio di fare musica. Poi, basta una scintilla — una persona, un progetto, una frase — e tutto torna a vibrare.
Il brano 7 invece ha una dimensione più simbolica e spirituale: richiama l’idea di equilibrio, di percorso interiore, di ricerca. Sono entrambe canzoni che indicano una direzione futura, un’evoluzione personale e artistica.

In “In un attimo” sembra esserci un richiamo a “Alle porte del sogno”. È così?
Sì, assolutamente. Nel 2010 attraversavo un momento di stanchezza profonda: dieci anni di dischi e tournée senza sosta. Alle porte del sogno nasce da quel vuoto, da quella domanda sul senso del mio fare musica. E poi, in un istante, arrivò la proposta di Stefano Bollani. Ed ecco che tutto tornò a scorrere. I sogni a volte vanno messi alla prova per capire quanto sono autentici.

Nella tua carriera hai lavorato con autori molto diversi: da Vasco Rossi a Francesco Bianconi, da Benvegnù a Pacifico. Oggi cosa cerchi in un autore?
Cerco una canzone che mi tocchi subito. Ho un’intuizione abbastanza immediata: se un brano mi cattura, mi appartiene. Non guardo il nome dell’autore. Ho lavorato con autori famosi ma anche con persone completamente nuove, e questo mi piace molto. A mia volta oggi posso dare spazio a giovani che hanno talento, proprio come altri artisti più grandi fecero con me.
Quanto alla nuova generazione autorale, credo che ci sia bisogno di una forte selezione, perché sono tantissimi. Ma tra loro ci sono autori di grande valore: bisogna saperli trovare.

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