Agadez

Intervista ad Agadez che, con QUEENDOMS Unplugged, continua il suo percorso artistico tra musica, spiritualità e ricerca delle radici più profonde del femminile.

Il nuovo album, realizzato con il celebre chitarrista Antonio Forcione, è stato presentato in anteprima all’Edinburgh Fringe Festival, dove ha conquistato pubblico e critica. Ogni brano nasce come un rito, dedicato a un’antica Dea e al suo potere simbolico. Tra tamburi a cornice, voce magnetica e corde dal sapore tribale, il disco diventa un viaggio sonoro che attraversa millenni e civiltà. Forcione ridisegna l’intero progetto in chiave acustica e sciamanica, intrecciando la sua chitarra con il canto e il tamburo di Agadez. Un’opera che esalta la dimensione spirituale dell’artista e apre nuove porte alla sua visione musicale.

Intervista ad Agadez

QUEENDOMS Unplugged nasce come un vero e proprio rito musicale: qual è stata l’immagine iniziale, la visione primaria che ha dato vita a questo progetto?
Il primo QUEENDOMS è nato con l’intento di creare musica che mi mandasse in trance, con voce e tamburo. La visione primaria (e primordiale) è stata quella delle prime sacerdotesse o sciamane, che nelle grotte paleolitiche facevano cerimonie alla Dea Madre e suonavano il tamburo per connettersi e viaggiare tra dimensioni, come tutt’ora fanno sciamane e sciamani di tutto il mondo. Quando dei miei esperimenti ho deciso di fare un disco che evocasse e invocasse le dee ancestrali, ho capito che le esecuzioni dal vivo dovevano essere una condivisione di questa dimensione rituale.

Cosa ti ha portata a volere una versione più “sciamanica” e acustica dell’album originale?
Il fatto che a lavoro finito ho sentito che c’era del potenziale ancora inespresso, quello sciamanico appunto. Era la prima volta che facevo un disco da sola e avevo fatto del mio meglio negli arrangiamenti, ma evidentemente non ero in grado di realizzare musicalmente quello che avrei voluto ascoltare, quantomeno non da sola. E qui è arrivato Antonio Forcione!

Ogni brano è dedicato a una Dea: come avviene la scelta della divinità e il processo di traduzione del suo mito in musica?
Inizialmente ho scelto dieci tra le dee più antiche, le prime a cui sono stati dati nomi. Ho cercato di tradurre in musica le atmosfere e le sensazioni legate ad ognuna, evocando i mondi da cui provengono, le civiltà che gli hanno dato nomi e identità (egizia per Isis, sumera per Inanna, ecc) e i miti con cui le hanno raccontate. Mentre con i testi ho voluto invocarne i poteri. Ci sono arrivate come dee molto diverse tra loro, ma in origine tutte Dee Madri, creatrici, sfaccettate e omnicomprensive. In Queendoms Unplugged Antonio ed io ne abbiamo aggiunte tre (NUT, TEFNUT e BEIRA), scrivendo insieme i relativi brani. 

Quale Dea senti più vicina alla tua energia artistica in questo momento della tua vita?
A volte mi sento più vicina a (o guidata da) Afrodite, altre Lilith o Ecate, altre Iside o Nut, Tanit o Inanna… ciclicamente tutte! Scherzi a parte, queste dee incarnano degli archetipi del femminile che si possono manifestare (e a cui si può ricorrere) per affrontare le varie situazioni della vita, per vivere ed esprimere un diverso sentire, dall’amore al dolore, dallo smarrimento alla forza.

Antonio Forcione ha ridisegnato completamente l’universo sonoro del tuo disco: qual è stato l’elemento più sorprendente del vostro dialogo artistico?
Per me è stato sorprendente scoprire, a un suo concerto, che la dimensione che cercavo nella mia musica fosse così presente e forte nella sua. Touch Wood mi ha folgorata! E poi tante altre… Antonio è un artista molto intuitivo e istintivo, nel comporre e nel suonare esprime le emozioni in maniera spontanea e immediata. Lavorare insieme è stato da subito molto fluido, senza bisogno di spiegarsi. Io gli ho parlato un po’ di ogni dea e lui traduceva in musica quello che sentiva, dalle canzoni preesistenti o dalle mie parole, nel caso dei brani nuovi. Questa naturalezza è stata la cosa più sorprendente.

Forcione descrive la sua chitarra come un “filo” tra la tua voce e il tamburo: come vivi questa interazione così fisica e spirituale tra strumenti?
La vivo come una naturale estensione ed evoluzione di questo progetto, che dal suo ingresso ha assunto la dimensione condivisa che desideravo, in senso “tribale”. Con Antonio e con gli altri musicisti con cui suoniamo Queendoms Unplugged siamo diventati una piccola tribù!

C’è un momento preciso in studio o dal vivo in cui hai percepito che la vostra collaborazione aveva creato qualcosa di davvero unico?
Si! È stato il lavoro su LILITH, quello che io definivo il brano “di protesta” del disco, in quanto Lilith è stata la dea più maltrattata dalla storia. Nella versione precedente la cantavo con rabbia e un senso di rivendicazione quasi da guerriera. Antonio l’ha trasformata in una canzone struggente, tanto che le prime volte mi veniva da piangere cantando il testo che io stessa avevo scritto… scoprendone un aspetto nuovo, drammatico e dolce, che non sapevo contenesse. Mi ha permesso lui di riconoscerlo. Da quel momento ho capito che questo percorso può essere onorato anche con (e da) uomini, che possono rivendicare la loro Lilith tanto quanto noi donne! Ero consapevole che i “Queendoms” fossero reami inclusivi, ma questa collaborazione mi ha spalancato lo sguardo fino a dissolverne i confini.

Definisci l’album come un rito, un richiamo, un incanto: cosa significa per te trasformare la musica in cerimonia?
Significa “canalizzare” la sacralità della musica perché arrivi al pubblico e gli permetta di partecipare, di “con-conoscere”. Adoro uno scritto di James Hillman che dice che l’antico significato della parola coscienza è ”conoscere con”, una funzione che tende alla partecipazione. «Un con-conoscere, condiviso come un segreto fra coloro che ne sono messi a parte.»
I momenti di connessione col sacro che la musica regala a chi la suona sono per me occasioni di risveglio, un incanto e un richiamo insieme. È questo che vorrei condividere con il pubblico, perché le nostre voci e i nostri tamburi attraversano anche i loro corpi, fanno vibrare i loro cuori, e il filo che tesse la chitarra di Antonio li può pure unire!

Il tuo lavoro è spesso legato all’archeomitologia e al Femminino Sacro: cosa rappresenta oggi la “Grande Dea Primordiale” per te e per il pubblico contemporaneo?
Per me rappresenta un ritorno a Madre Natura, tramite i nostri corpi, e una riconnessione alla nostra vera natura, che è sacra, amorevole e pacifica. E per tutti è un’occasione di risveglio, e dunque di evoluzione. Ma quanti sono pronti a coglierla oggi non mi è chiaro… Viviamo ancora in un mondo fortemente patriarcale, in cui l’uomo è disconnesso da Natura da millenni ormai.

La dimensione del rito musicale è anche un atto politico o sociale, oltre che spirituale?
Lo è nella misura in cui rifiuta la prigionia delle leggi del mercato e del mero intrattenimento e persegue intenti antitetici a quelli del mainstream, non solo musicale. 

Hai presentato QUEENDOMS Unplugged in anteprima con nove concerti all’Edinburgh Fringe Festival: che tipo di pubblico ha incontrato il progetto?
Un pubblico variegato, di diverse età e provenienze, da appassionate di queste tematiche a chi non ne sa nulla. Essendo il Fringe un festival principalmente teatrale è stato bello vedere quanto gli spettatori fossero sorpresi dai nostri concerti.

Le recensioni parlano di un’esperienza “ipnotica”, “organica”, perfino “sciamanica”: cosa pensi abbia toccato così profondamente il pubblico internazionale?
Credo sia stato il fatto che non si aspettavano uno “show” così diverso da ciò che conoscevano. Il commento più frequente all’uscita del teatro era che non avevano mai visto una cosa del genere.

Portare un rituale sonoro in un festival così eclettico: ha cambiato il tuo modo di percepire l’opera?
Mi ha aiutata molto a metterla a fuoco. Per tutti noi musicisti (eravamo in sei) è stata la prima volta in cui abbiamo fatto nove concerti di seguito. Ogni sera all’uscita ci scambiavamo note e considerazioni e così il concerto è cresciuto replica dopo replica.  Un punto di svolta per me è avvenuto quando ho iniziato a guardare il pubblico negli occhi mentre cantavo. All’inizio riuscivo a guardare solo le donne e le vedevo commuoversi in alcuni momenti, specie su Lilith, ma poi ho cominciato a guardare pure alcuni uomini e ho scoperto che anche loro erano scossi! Ho incrociato sguardi che mi hanno molto toccata. E la connessione che si crea col pubblico quando lo guardi negli occhi è uno scambio energetico indescrivibile.

Il live del 18 dicembre all’Auditorium Parco della Musica è definito una “cerimonia sonora”: cosa deve aspettarsi lo spettatore?
Un po’ di quel che ho descritto sopra! Almeno un po’… 😉

Qual è la vibrazione o l’intenzione che porti sul palco ogni volta che inizi un concerto di QUEENDOMS?
Iniziamo sempre con TANIT, perciò mi connetto con lei, che ha un’energia molto forte, e inizio il viaggio, dal deserto del Sahara. Un viaggio che ci riconduce di nonna in nonna fino alla Prima Madre.

Vivi tra due mondi molto diversi: New York e una fattoria in Italia. Come influisce questa dualità sul tuo modo di creare?
Vivo principalmente nella fattoria ormai da anni, a New York ho vissuto di più in passato, ma adesso ci torno solo per brevi periodi. Ho fatto una scelta che asseconda il mio bisogno di una vita nutriente, di onorare “il tempo che mi rimane”, avrebbe detto Battiato.

La tua carriera abbraccia cinema, videoarte, musica, performance: cosa ha preparato il terreno per la nascita del tuo alter ego AGADEZ?
Presi le mie prime lezioni di chitarra a 11 anni e da allora non c’è stato un giorno della mia vita senza musica. Di tutte le arti è quella che mi nutre di più. È la più immediata e spontanea. E soprattutto accoglie tutto. È per me il linguaggio più intimo e interiore… e più universale: lo capiscono pure animali e piante! AGADEZ ha preso nome da poco ma in me è sempre esistita, come le dee di cui canto.

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