Con MALDIVITA, il suo primo album solista, Plant compie una rinascita artistica e personale, raccontando senza filtri il disagio di una generazione.
Il disco è uno specchio di un’epoca iperconnessa ma fragile, in cui il dolore deve diventare estetico per sembrare reale e le emozioni valgono meno delle visualizzazioni. «MALDIVITA è la malattia della nostra generazione», afferma Plant, definendolo una febbre costante che nasce dall’incapacità di fermarsi e ascoltarsi. Nei brani emergono depressione, solitudine, nostalgia e rabbia, ma anche la forza di trasformare le cicatrici in musica. Il progetto, nato dopo mesi di crisi e di dubbi, è per l’artista un figlio, una terapia e un nuovo inizio.
Con sonorità che spaziano dall’emo-trap al punk e collaborazioni scelte con autenticità, Plant si mostra finalmente senza maschere. MALDIVITA diventa così un grido generazionale, ma anche un invito a riscoprire se stessi nell’era della frenesia.
Intervista a Plant, l’album d’esordio “Maldivita”
Plant, cosa rappresenta Maldivita nel tuo percorso artistico?
In realtà rappresenta la mia rinascita. Ho attraversato un periodo molto difficile, probabilmente la sfida più grande della mia vita. Dopo l’apice di Sanremo, che non è stato solo bello ma anche molto complicato nel post, mi sono trovato a rimettere in discussione tutto. Ho persino pensato di mollare la musica e tornare a una vita “normale”. Poi, canzone dopo canzone, sessione dopo sessione, ho ricucito i pezzi di me stesso. Maldivita mi ha restituito chi sono davvero, senza maschere: è come un figlio che mi ha ridato felicità.
Nell’intro del disco parli proprio di Sanremo e delle illusioni che ne sono seguite. Questo tema sembra attraversare tutto l’album…
Sì, direi che è il filo conduttore. Quello che io chiamo “maldivita” non è solo un mio male personale: è la malattia della nostra generazione. Siamo nati connessi ma in realtà sempre più soli, chiusi nelle stanze a scrollare la felicità degli altri. Viviamo in una vetrina dove mostriamo solo il meglio, mentre la fragilità – che sarebbe una risorsa – viene nascosta. Fermarsi è visto come un fallimento, mentre invece ascoltarsi potrebbe farci crescere davvero. Tutti, in un modo o nell’altro, soffriamo questa disillusione di un mondo che sembra perfetto, ma non lo è.
I testi del disco sono molto diretti, a volte duri, senza il timore di nominare immagini forti come il suicidio o il dolore mentale. Come sei riuscito a trovare questa libertà?
Ripartire da zero è stato tosto: dopo un periodo fermo, rischi di passare dall’avere tutto al non avere nulla. Ma la cosa positiva era che non dovevo più rincorrere standard o aspettative discografiche. Non sapevo nemmeno se sarei riuscito a fare un album da solo, quindi mi sono detto: “fregatene e sii vero”. Volevo far uscire Francesco, non solo Plant. Forse la mia forza è proprio questa: non sarò mai quello della hit con il balletto su TikTok, ma so essere reale. Per me lo studio è terapia, è l’unico posto dove smetto di pensare troppo e mi libero dal continuo overthinking.
Hai detto che il nemico più grande non è fuori, ma dentro di noi.
Esatto. Puoi subire insulti, violenza, cadere a terra, ma il giudizio più duro viene da dentro. La mente è l’arma più potente, quella che può fermarti o spingerti più in alto. Io stesso scrivo che “niente mi fa male più della mia mente”: è la mia battaglia quotidiana. La musica diventa allora un modo per convivere con questo nemico, per trasformarlo in forza creativa.
Nel disco si sente tanta varietà, sia nelle produzioni che nel tuo approccio vocale. Da dove nasce questa libertà stilistica?
Negli anni ho assorbito tantissime influenze. Ho iniziato con il rap, facendo freestyle e contest per strada, sono del ’99 e penso di essere una delle ultime generazioni a vivere la musica così. Poi ho esplorato il pop punk, mi sono immerso in quella scena, e oggi sto studiando canto perché amo anche pezzi più melodici. Tutto questo confluisce in Maldivita: ogni brano è un episodio a sé, ma insieme costruiscono un’unica storia. Non ci sono doppioni, ogni canzone ha un concetto preciso, perché credo che i testi siano ciò che rende la musica immortale.
Quindi per te la scrittura rimane centrale?
Assolutamente sì. In un panorama saturo di musica, se un pezzo non esprime un concetto chiaro rischia di sparire in fretta. La hit può durare un’estate, ma sono i testi che fanno restare le canzoni nel tempo. Ecco perché ogni brano di Maldivita tocca un tema diverso e va in profondità: dalla “catena dell’odio” a Piccolo me. Per me era fondamentale che ogni traccia avesse un peso reale, qualcosa da dire.
In più punti del disco parli della solitudine e della difficoltà di condividere passioni ed esperienze con i tuoi coetanei. Quanto ha influito questo aspetto nella scrittura di Maldivita?
Tantissimo. Mi rendo conto oggi che ho saltato dei processi fondamentali per un ragazzo. Ho 26 anni sulla carta, ma è dai 16 che vivo lontano da casa, in giro per città diverse, ospitato un po’ ovunque: case di fan, di artisti, di ragazze. Ho visto e vissuto cose troppo presto e adesso mi sento già consumato. Porto dentro una nostalgia costante: se la notte non ho accanto la mia ragazza o degli amici, mi assale un vuoto forte. La distanza dalla mia famiglia e dagli amici di sempre pesa, e il fatto di occuparmi di soldi, contratti e responsabilità fin da adolescente mi ha fatto crescere in fretta, ma lasciandomi dei vuoti. Oggi cerco di recuperarli tornando più spesso a casa, ma è una battaglia.
Questo senso di nostalgia lo racconti bene in alcuni brani, ma musicalmente c’è anche tanta varietà, come in Scarabocchio, con un sound Emo-trap molto personale. Come hai costruito la parte musicale del disco?
Ho voluto far convivere tutte le mie influenze. Nessun pezzo appartiene a un genere “puro”, ma ognuno si muove in una direzione: emo-trap, punk, scream, pop. Ho amato artisti come Lil Peep, al punto che ho chiamato il mio gatto Peep: la sua musica mi ha salvato la vita. Quelle sonorità sono entrate in me e le ho fatte mie. In Maldivita c’è spazio per tutto, ogni slot ha la sua funzione. Ho voluto raccontare un percorso sonoro che rispecchia la mia vita, non un’unica etichetta musicale.
Parliamo delle collaborazioni: poche ma sentite, con nomi importanti come Nitro. Come le hai scelte?
Non volevo un disco pieno di featuring tanto per. Oggi tanti progetti sembrano compilation: non sai nemmeno di chi sia il disco. Io invece ho scelto solo persone con cui ho un legame vero. Sally Cruz per me è come una sorellina: è del 2003, ha vissuto tante difficoltà e ci capiamo profondamente. Con i BNKR44 c’è un’amicizia che va oltre la musica, condividiamo la vita. 18K lo stimo molto: si sta conquistando tutto da solo, passo dopo passo, come ho fatto io. E Nitro… lui per me è stato un punto di riferimento fin da quando ero ragazzino. Mi dicevano “sembri Nitro”, perché ero influenzatissimo dal mondo Machete. Ritrovarmi in studio con lui dieci anni dopo, con la sua energia a spingere il mio progetto, è stato incredibile.
Il 28 ottobre presenterai l’album ai Magazzini Generali. Cosa dobbiamo aspettarci da quel live?
Sarà una grande festa, suonerò Maldivita per intero e non sarò da solo sul palco. Sto preparando un concerto con una band al completo, musicisti aggiunti e una scenografia curata. Ma soprattutto voglio che sia un momento di comunità: apriranno anche artisti più giovani, emergenti, che hanno bisogno di spazi e di supporto. Io credo che la scena alternativa italiana debba unirsi e sostenersi, perché solo così possiamo far crescere sonorità nuove. Per me il live non è una vetrina di numeri, ma un’occasione per dimostrare che siamo diversi ma uguali, e che insieme possiamo creare qualcosa di nuovo.
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Speaker radiofonico, musicista e collaboratore di diverse testate nazionali e internazionali. Segue come inviato il Festival di Sanremo dal 1999 e l’Eurovision Song Contest dal 2014 oltre a numerose altre manifestazioni musicali. In vent’anni ha realizzato oltre 8.000 interviste con personaggi del mondo della musica, dello sport e dello spettacolo. Nel 2020 ha pubblicato il romanzo “La Festa di Don Martello”, nel 2022 “Galeotto fu il chinotto” e “Al primo colpo non cade la quercia” e nel 2205 “Ride bene chi ride ultimo”
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