Alvaro Soler

Intervista ad Alvaro Soler, che venerdì 10 ottobre ha pubblicato per Sony Music l’album El Camino, progetto che apre un nuovo entusiasmante capitolo della sua carriera, mostrando la sua visione personale, evoluta e moderna del pop latino. Qui il link per l’acquisto di una copia fisica.

Questa la tracklist.

  • 01. INTRO
  • 02. DISTANCIA
  • 03. APÁGAME
  • 04. TE IMAGINABA
  • 05. SANTA ALEGRÍA
  • 06. REGALO
  • 07. LO QUE PASÓ, PASÓ (FEAT. MARTA SANTOS)
  • 08. MEJOR QUE YO
  • 09. ARTIFICIAL
  • 10. CON CALMA
  • 11. CERO (FEAT AMAYANA WOMEN’S CHOIR)
  • 12. DICEN
  • 13. BUENA VIDA
  • 14. ELECRITIDAD
  • 15. JARDÍN DE LOS RECUERDOS
  • 16. OUTRO

Intervista ad Alvaro Soler, il nuovo album ‘El Camino’

Alvaro, cosa rappresenta El Camino nel tuo percorso artistico?
El Camino rappresenta qualcosa di profondo nel mio percorso artistico: è un album che arriva dopo quattro anni e racchiude tanto tempo della mia vita, non solo gli ultimi anni ma in realtà tutto ciò che mi ha formato fin dall’inizio.

Nel disco ci sono brani che parlano di presente ma anche di memoria.
Mi piace definirlo quasi come un “foto album” della mia storia. Volevo che fosse un po’ come un album fotografico: qualcosa che potessi guardare in futuro e dire “queste erano le cose che mi colpivano allora”. Dentro ci sono tanti momenti diversi, c’è la mia famiglia, ci sono esperienze e riflessioni. È come se avessi raccolto le istantanee della mia vita, ma in forma musicale.

Parliamo del singolo Apágame, che affronta un tema molto contemporaneo: il rapporto con il digitale e i social. Da dove nasce l’idea?
È un tema che volevo trattare da tempo, perché oggi tutti abbiamo un rapporto inevitabile con il mondo digitale. È quasi strano incontrare qualcuno che non ha WhatsApp o Instagram: la prima reazione è pensare “come, non ce l’hai?”. È come se l’assenza dai social fosse sospetta, o “fuori norma”.

Questo dice molto della nostra società: ormai se non sei presente anche nel mondo virtuale, sei visto come “strano”. Apágame nasce proprio da qui, dal bisogno di riflettere su come mantenere una relazione sana tra la realtà e il digitale.

In un certo senso, è anche un invito a riscoprire se stessi, il silenzio, la solitudine creativa.
Assolutamente sì. L’introspezione è fondamentale, non solo per un artista ma per chiunque. Io ho bisogno di fare cose che esistano nel mondo reale, fisico, che coinvolgano il mio corpo. Nel mondo digitale tutto passa attraverso uno schermo minuscolo, e il resto lo completa la nostra immaginazione.

Fare sport, muoversi, vivere esperienze “vere” è una forma di equilibrio. Per me è importante bilanciare questi due mondi, perché se resti solo nel digitale rischi di perdere il contatto con te stesso.

Dal punto di vista musicale, Apágame ha una struttura interessante: parte con un sound moderno e pop per poi concludersi in modo quasi minimale. Com’è nata questa scelta di produzione?
Quando ho iniziato a scrivere questo album, volevo infrangere un po’ le regole. Mi sono chiesto: “perché seguiamo sempre questa struttura? Solo perché tutti fanno così?”. Non era un motivo abbastanza forte per me.

Volevo vedere dove mi portava la musica. Se il mio istinto mi diceva “vai in questa direzione”, lo seguivo. Così è nata Apágame, che ha un finale molto diverso dal resto: rappresenta il passaggio dal mondo digitale a quello reale. All’inizio tutto è perfetto, prodotto, levigato, la voce è filtrata e equalizzata; poi, pian piano, resta solo la voce vera, nuda.

Oggi è raro sentire una canzone senza autotune. Le nostre orecchie si sono abituate alla perfezione artificiale, tanto che molti cantanti dal vivo usano comunque un correttore di intonazione per suonare “come nel disco”. È un peccato, perché così si perde un po’ l’anima della musica.

Proprio l’anima, invece, è molto presente nel nuovo album. I fan italiani ti hanno conosciuto attraverso brani leggeri e spensierati, ma qui esplori tematiche più profonde: l’autoguarigione, il coraggio, la speranza, l’amore, l’unione. E musicalmente ti metti in gioco con generi diversi. Come nasce questa evoluzione?
Penso che fin dall’inizio avessi chiaro un obiettivo: o facevo qualcosa di completamente nuovo, o non avrei fatto nulla. Ripetermi non aveva senso. Volevo sorprendermi, anche per riscoprire la magia della musica.

Quando scrivi una canzone, sei tu il primo a sentire le emozioni che speri di trasmettere. Se non le provi tu, come può provarle chi ti ascolta? Per questo ho sempre scelto, in ogni decisione creativa, la strada meno convenzionale.

Mi sono anche detto: “sono comunque un artista pop, anche se provo a fare qualcosa di più indie o alternativo, la mia natura rimane quella”. E quindi ho giocato con questo equilibrio: la libertà creativa da un lato e la melodia pop dall’altro. È stato un processo divertente, stimolante, pieno di scoperte.

Hai parlato di “cammino”, non solo come titolo del disco ma come concetto centrale. Cosa significa per te?
El Camino è la strada che ho percorso fino a qui, ma anche quella che continua davanti a me. È un viaggio personale e artistico. Dentro ci sono momenti di felicità, di dubbio, di riflessione. Ho imparato che ogni tappa, anche quella più difficile, ti lascia qualcosa di prezioso. È anche un modo per dire a me stesso e a chi mi ascolta che non serve avere sempre tutte le risposte. A volte basta camminare, osservare, lasciarsi sorprendere.

Nel disco parli spesso di equilibrio: tra reale e digitale, tra passato e futuro, tra pop e sperimentazione. Ti senti in una fase di maturità artistica?
Sì, ma senza prendermi troppo sul serio. Credo di essere in una fase in cui ho imparato a conoscermi meglio. So cosa voglio, ma soprattutto so cosa non voglio più. Ho capito che la musica deve restare un luogo di libertà, non di aspettative. Mi piace poter dire: “oggi faccio questo perché lo sento”. E se domani sentirò qualcosa di diverso, andrà bene lo stesso.

E cosa speri che il pubblico trovi dentro El Camino?
Spero che ognuno possa trovare un piccolo pezzo di sé. Non è un disco che vuole insegnare qualcosa, ma che vuole condividere un’emozione. Se anche solo una persona ascoltandolo penserà “mi sento capito”, allora sarà valsa la pena.

Il tuo nuovo disco è un pop fortemente contaminato. Nella tua musica si sentono le tue esperienze di vita tra Giappone, Germania, Spagna e l’Italia, che ti ha accolto con grande affetto. La registrazione dell’album in città come Berlino, Barcellona, Londra, Miami e persino in Africa ha influito sul risultato finale?
Sì, tantissimo. L’album è un equilibrio tra culture e suoni diversi — un mix che rappresenta perfettamente chi sono io. Ci sono elementi di vari stili musicali, ma alla fine tutto armonizza in modo naturale. Volevo che il progetto avesse una continuità, pur essendo ricco di contaminazioni. Per questo ho scelto di spingermi oltre, di sperimentare davvero. Ho registrato un brano con un coro africano, per esempio. Non avevo mai sentito una canzone in spagnolo con un coro di quel tipo, e ho pensato: “Perché non farlo?”. A volte basta solo un piccolo passo, un’idea semplice, per arrivare a qualcosa di nuovo. Questo per me è il significato del Camino.

Negli ultimi anni il pubblico musicale è cambiato molto. In passato la musica latina era considerata di nicchia; oggi, invece, è parte della cultura pop europea. Come hai percepito questo cambiamento?
È vero. Ai tempi di El Mismo Sol, La Cintura e Sofía, la musica latina viveva un momento d’oro in Italia e in tutta Europa. Poi è arrivato il Covid, e molti paesi, come l’Italia o la Germania, sono tornati a concentrarsi sulla musica nazionale.

Oggi stiamo vivendo un’epoca dominata dal suono urbano. Il pop, in un certo senso, si è trasformato in musica urbana. Io stesso non saprei più definire con precisione il mio genere: è un pop contaminato, ma ancora pieno di melodia e ritmo. La musica cambia continuamente, e il nostro compito come artisti è cavalcare queste onde, anche quando non sappiamo esattamente dove ci porteranno.

Tu suoni in tutta Europa: dall’Italia alla Germania, dalla Repubblica Ceca alla Spagna. Come cambia il pubblico da paese a paese? E cosa pensi in particolare del pubblico italiano?
Il pubblico italiano è semplicemente fantastico. È uno dei più calorosi che esistano. Ai concerti cantano ogni parola, urlano, ballano, vivono la musica con un’energia unica.

Suonare in Italia è qualcosa che ogni artista dovrebbe fare almeno una volta nella vita: non solo per il pubblico, ma per tutto ciò che ruota intorno alla musica, per la cultura, per la passione che si respira.

In altri paesi è diverso: in Repubblica Ceca, ad esempio, i concerti sono straordinari, pieni di entusiasmo; in Germania o in Svizzera il pubblico è più riservato, devi “risvegliarlo” un po’. Ma anche quello ha il suo fascino. Io mi sento fortunato a poter incontrare persone e culture così diverse attraverso la musica.

Hai citato molti paesi ma non la Spagna. Ti chiedo: è cambiato anche il pubblico spagnolo negli ultimi anni?
Sì, il pubblico spagnolo è molto diverso dal resto d’Europa. In Spagna c’è ancora un forte legame con il pop tradizionale, ma se guardi le classifiche di streaming, quasi tutti i brani nella Top 50 sono di reggaeton o musica urbana.

Penso che ormai dovremmo andare un po’ oltre. Artisti come Bad Bunny, ad esempio, stanno facendo un lavoro incredibile nel mescolare le radici tradizionali del loro paese con suoni moderni. Quella, secondo me, è la strada giusta.

In ogni caso, la Spagna resta una sfida (“un reto”, come diciamo noi). Io sono contento del sostegno che ricevo, anche con brani come Lo Que Pasó Pasó, che ho realizzato con un artista di Siviglia: è un pezzo più tradizionale, ma molto sentito.

Hai parlato di “educare” il pubblico attraverso la musica. In che senso pensi che la contaminazione sonora possa avere anche un valore formativo?
Credo che il pubblico debba essere continuamente sorpreso. È così che lo “educhi”. Se ascolti un album che è troppo facile, forse non lascia davvero il segno. Ma quando ascolti un disco che ti spiazza, che ti fa dire “non capisco, ma mi affascina”, allora sta succedendo qualcosa di importante.

Penso a un’artista come Rosalía: i suoi album all’inizio sembrano quasi strani, spiazzanti, ma poi capisci che sono rivoluzionari. Questo per me è il bello della musica: non restare mai fermo, ma evolversi e spingere chi ti ascolta a farlo insieme a te.

In Italia il pubblico ti ricorda anche per la tua partecipazione a X Factor. Quanto è stata importante quell’esperienza e come vedi oggi il mondo dei talent?
X Factor è stata un’esperienza bellissima, mi ha permesso di conoscere meglio il pubblico italiano e di crescere anche come persona.

Credo però che oggi i talent dovrebbero essere ripensati. Secondo me dovrebbero andare in onda ogni due anni, non ogni anno. C’è un sovraccarico di artisti e contenuti: il pubblico non ha più il tempo di affezionarsi, e anche gli algoritmi fanno fatica a mostrare tutta questa musica.

In Spagna, ad esempio, Operación Triunfo va in onda ogni due o tre anni, e ogni volta diventa un evento virale. Questo perché c’è il tempo per “digerirlo” e per tornare ad averne voglia. È un modello che funziona molto meglio.

L’ultima domanda riguarda il tuo “cammino”: dopo tutte queste esperienze e sperimentazioni, cosa ti rende oggi più orgoglioso della tua musica?
La parte positiva. L’allegria. È l’ingrediente che non manca mai nella mia musica, e ne sono molto orgoglioso. Durante i concerti o anche per strada, quando incontro le persone, mi raccontano le loro storie, e spesso mi dicono che una mia canzone li ha fatti sorridere o li ha aiutati in un momento difficile. In questi giorni ho fatto una serie di concerti di busking a Milano e ho parlato con tanta gente: vedere come la musica crea connessioni è meraviglioso. In un mondo pieno di problemi, credo che portare un po’ di allegria sia un atto importante. E se devo definirmi in una parola, direi che sono felice di essere “l’ambasciatore dell’alegría”.

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