Intervista a Diora Madama, Angela Radoccia, cantautrice, performer e producer abruzzese domiciliata a Milano. Rappresenta il punto d’incontro tra un’attitudine pop contemporanea e una costante ricerca sui suoni, i ritmi e le culture musicali Mediterranee e Sudamericane.

La Morte“, il suo primo album, è un progetto metamodernista che esplora la coesistenza degli opposti: vita e morte, sensualità e spiritualità, luce e oscurità, tradizione e urbanità. È un’opera che abita la complessità, dove la fine diventa inizio e la vulnerabilità si intreccia alla forza. L’immaginario visivo e lirico di Diora Madama affonda le radici nel Sud, rendendo l’Abruzzo, terra d’origine dell’artista, un simbolo universale di contraddizione, identità e rinascita.

Intervista a Diora Madama

“La Morte” è un album metamodernista che accoglie gli opposti. Cosa rappresenta per te oggi la parola “morte”? È più un punto di arrivo, un portale o un modo di raccontare la trasformazione?
L’unica cosa su cui non ci c’è alcun dubbio è che si tratta di una trasformazione. E la trasformazione è per certamente la morte di un qualcosa o di parte di un qualcosa a favore dell’inizio di un’altra. È inevitabile 

Nel disco sono numerose le contraddizione: luce e oscurità, sensualità e spiritualità. Da quale tensione sei partita per costruire questo universo?
La tensione, l’oscillazione tra i poli è una cosa che mi caratterizza in primis come persona, di conseguenza come artista: non c’è una tensione in particolare da cui parto, è probabile che mentre lavoro ad un brano ci sia una oscillazione di umore, e il brano diventa ricco ossimori e dunque sfumature.

Hai definito l’estetica dell’album come “oscurità calda”. Qual è stata la scintilla iniziale che ha dato forma a questa temperatura emotiva e sonora?
Non credo ci sia stato esattamente un momento, come una scintilla iniziale: piuttosto è stata una naturale verbalizzazione e consapevolizzazione di questa temperatura. Più scrivevo più capivo quale fosse lo schema effettivo. Spesso tutto ciò che è cupo viene associato al freddo, al distacco. Io vivo invece tutto ciò che è scuro in modo passionale, non sono mai distaccata nella negatività. 

L’Abruzzo è la tua matrice, ma nel disco diventa un simbolo universale. Qual è l’immagine o il ricordo più preciso della tua terra che ha guidato la scrittura di La Morte?
Due estati fa, ad agosto, ho fatto una delle mie più riuscite meditazioni degli ultimi dieci anni: ero al mare, seduta a riva molto vicina ad un trabocco che visito spesso; ho passato l’intera giornata a fissare l’orizzonte (salvo nutrirmi) e senza avere alcuna interazione sociale. Questa cosa l’ho ripetuta per i due giorni seguenti. In quel frangente ho scritto molti versi dell’album. Oltretutto questo è diventato il mio rito, quando torno in Abruzzo torno sempre lì a meditare. 

I featuring sono entrambi abruzzesi: Troyamaki e Leslie. È stata una scelta istintiva o anche una presa di posizione identitaria e politica sul concetto di “Sud”?
Entrambi. Istintiva perché gli artisti in questione sono anche amici, dunque sono dei featurings naturali, non “discografici”; tuttavia, non ho voluto inserire alti feat proprio perché volevo mantenere una identità abruzzese. La nostra regione non è molto popolare in Italia, volevo mettere sul piatto la nostra identità. 

Nel disco c’è un Sud che non è pittoresco, ma viscerale e spirituale. Cosa volevi smontare e cosa volevi custodire dell’immaginario tradizionale?
Riprendendo sempre il discorso abruzzese (e per esteso il meridione): spesso vi è una immagine (sopratutto da parte nostra) giocosa, spesso trash, che certamente fa divertire, ma purtroppo è quella preponderante. Volevo mostrare l’altra faccia della medaglia, quella appunto più viscerale, introspettiva ed anche misteriosa. Un Abruzzo -e un sud- colto, ricco di una cultura popolare. Sono stata molto ispirata dalle poesie in dialetto di Cesare de Titta, ad esempio. Per quanto riguarda il mio album, credo che santa Rabbia racchiuda bene il concetto. 

Il tuo percorso parte dal jazz e arriva a un sound che unisce bossa nova, baile funk, taranta, afro-latin e urban. Quale linguaggio ti ha messo più alla prova come producer?
Nessuno a dire la verità. Sono generi che ascolto tutti i giorni, dunque mi viene naturale lavorare con questi pattern ritmici; non solo, lo trovo anche divertente, sopratutto quando scelgo di mischiarli. 

Hai firmato tutte le produzioni dell’album, affiancandoti a nomi come Andro, Dade, MadD3e, Brail, False e Rossella Essence. Per ogni producer coinvolto, cosa ha portato al tuo universo?
La cosa bella di lavorare con altri producer, soprattutto oggi che sono finalmente considerati artisti tanto quanto chi è sul palco, è che ognuno ha la propria personalità e questo si sente fortemente. Credo che come producer non si può prescindere da ciò che si è, ognuno ha i propri suoni, i propri pattern caratterizzanti, eccetera, influenzati dai propri ascolti quindi dalla propria sensibilità.

Nei tuoi brani convivono strumenti “antichi” e ritmi globali contemporanei. Come lavori il confine tra folclore e innovazione per evitare l’effetto citazione o folklore da cartolina?
Credo sia davvero una questione di scelta di suoni. Tendo ad ibridare molto i suoni organici con quelli digitali, sopratutto lavoro molto con i sample vocali e uso la mia voce per fare molti strumenti che poi si riversano nelle produzioni. Mi piace lavorare dalla fonte del suono organica per poi digitalzzarla. È molto coerente con il mondo in cui stiamo vivendo.

Molte tracce non seguono una struttura pop classica. Quanto è stato importante rompere lo schema per raccontare l’idea di “morte/rinascita”?
Partendo dal presupposto che non considero il mio un album pop, delle strutture me ne sono altamente fregata (eccetto qualche traccia, ma sono davvero poche). Non credo di aver rotto uno schema perché io uno schema non l’ho mai realmente avuto. D’altronde neanche la morte ne ha uno. 

Hai una forte formazione visiva: fotografia, cinema, performance. In La Morte, quanto la musica nasce già con un’immagine attaccata?
100%. Partendo dal presupposto che la mia indecisione di carriera in adolescenza era scegliere tra la musica e la regia/fotografia, l’elemento visivo è sempre imprescindibile; tendenzialmente quando scrivo musica immagino scenari, il testo è l’ultima parte del processo. 

Il tuo immaginario affonda nella ritualità, nel corpo, nel sacro. C’è una Dea, un simbolo o un archetipo che ha fatto da bussola durante la creazione dell’album?
No. Non ho riferimenti simbolici di alcun tipo. Tuttavia, l’elemento spirituale però non è mancato nella gestazione in quanto io pratico meditazione da più di dieci anni, dunque ho i miei riti e le mie preghiere che pratico sopratutto quando il lavoro è fortemente creativo.

Sei passata dai jingle pubblicitari ai cartoni animati, poi dal jazz al pop contaminato. Qual è stato il momento in cui hai capito che Diora Madama era finalmente “la tua voce”?
In realtà continuo a fare tutto questo. Per lavoro mi capitano ancor ai jingle, il jazz lo ascolto ancora anche se non lo pratico attivamente, il pop contaminato è il mio pane quotidiano. Diora Madama era la mia voce anche prima, non è cambiata la sostanza ma solo il modo di palesarlo al mondo esterno.

Qual è la parte più difficile del fare un disco che parla apertamente di vulnerabilità e forza? È stato più complesso esporsi o contenere tutto questo immaginario?
Espormi in forma artistica è davvero semplice per me, proprio perché nel quotidiano ho una difficoltà atroce. Tutto ciò che non riesco a dire nei miei rapporti lo metto in musica (quindi tutto). Spesso infatti c’è una grande dissociazione tra i miei rapporti e la mia musica. 

Il disco sembra una dichiarazione di indipendenza artistica. Qual è la libertà che ti sei presa e che non sei più disposta a perdere?
Esattamente la libertà di indipendenza artistica. Io faccio questa musica perché mi piace, se qualcuno la apprezza mi fa piacere, se qualcuno non la apprezza non mi cambia nulla. Non ho mai fatto musica o arte per compiacere gli altri o richiedere attenzioni. 

Le tue performance sono molto fisiche, quasi rituali. Che tipo di “rito” diventa La Morte quando lo porti dal vivo?
La dimensione live è quello che dovrebbe essere la musica, assurdo pensare che sia una eccezione. Di conseguenza sì, il carattere rituale diventa ancora più accentuato in questo caso. Forse un rito catartico? “scappo dalla morte correndole appresso”, apro l’album con questa frase. 

Il disco è un ciclo: finisce con “l’amorte (outro)”. Se dovessi immaginare l’inizio del prossimo capitolo, da quale emozione ripartiresti?+
Forse dall’anedonia, se possiamo chiamarla emozione, essendo la negazione stessa delle emozioni, è un argomento interessante dopo aver affrontato in questo album qualunque sfumatura emotiva

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