Revelè

È disponibile in radio e digitale “‘O Mar ‘O Mar“, il singolo d’esordio del cantautore napoletano Revelè, prodotto da Mario Meli. Il brano nasce dalla nostalgia e dal desiderio di tornare alle proprie radici, con il mare di Napoli come simbolo di casa, silenzio e memoria. Scritto in un momento di lontananza dalla sua terra, il pezzo è un dialogo intimo e sincero con le proprie origini. Unisce sonorità pop contemporanee a influenze mediterranee. Si presenta come una preghiera moderna contro la solitudine.

«Sono nato a Napoli, ma la mia infanzia si è divisa tra Melito e il confine con Scampia – racconta Revelè – Mio padre si è ammalato di cancro quando avevo appena due anni, e se n’è andato quando ne avevo nove. Quegli anni sono stati un limbo fatto di silenzi, domande senza risposte e attese sospese. A tredici anni, dopo essermi trasferito a Bergamo, ho iniziato a scrivere per restare a galla, per dare voce alla balbuzie, al vuoto, alla nostalgia. “‘O Mar ‘O Mar” è il richiamo che sentivo ogni giorno da lontano: il mare, il Vesuvio, la luce, il calore. È il mio canto d’appartenenza. La mia radice, anche da lontano.»

Intervista a Revelè

1. Revelè, partiamo dal tuo esordio: cosa rappresenta per te “’O Mar ’O Mar” e com’è nato questo brano così intimo e personale?

“‘O Mar ‘O Mar” è il mio ritorno simbolico a casa. È nato in silenzio, mentre sentivo il richiamo continuo della mia terra da lontano. L’ho scritto nei giorni in cui Napoli era più lontana che mai, ma viveva fortissima dentro. È una dichiarazione d’amore, un dialogo con le mie radici e una promessa che ho fatto a me stesso: non dimenticare mai da dove vengo. È una preghiera, una vertigine, una voce che torna.

2. Hai parlato di questo pezzo come di una sorta di preghiera moderna al mare di Napoli. Cosa simboleggia per te il mare, nella tua vita e nella tua musica?

Da piccolo ero affascinato dalla Divina Commedia e da Caronte, il traghettatore di anime: lo immaginavo come un passaggio dentro un mare di ricordi. Oggi vedo il mare così: un traghetto di emozioni, un viaggio tra memorie e pensieri che mi formano. Il mare non mi ha mai tradito: ci medito davanti come un monaco tibetano. È silenzio e voce allo stesso tempo. Da bambino mi dava speranza. Oggi mi riflette e mi guida verso l’ignoto.

3. La nostalgia e il bisogno di tornare alle radici sono temi centrali nella tua scrittura. In che modo il distacco dalla tua terra ha influenzato il tuo percorso artistico?

Il distacco è stato violento, come essere strappati dal grembo. A Napoli mi sentivo cullato, nella sua luce anche quando era sfacciata. A 13 anni mi hanno portato via, a Bergamo. È stato uno shock. Scrivere è diventato il mio modo di non dimenticare. Anche perché balbettavo, e la scrittura era l’unico posto dove le parole uscivano intere. Ho iniziato per sopravvivere, poi è diventato il ponte tra ciò che ero e ciò che stavo diventando.

4. Il brano mescola pop contemporaneo, sonorità mediterranee ed elementi urban. Quanto è stato naturale per te trovare questo equilibrio tra modernità e tradizione?

È venuto da sé, perché è ciò che sono. Mio padre ascoltava Bruce Springsteen, mia madre Mango ed Elisa. Io sono cresciuto tra le urla delle gente, i cori delle piazze e i festival elettronici. Sono figlio della tradizione e della modernità, e la musica che faccio ne è solo il riflesso. Non ho cercato un equilibrio: è semplicemente uscito così.

5. Hai un passato complesso, segnato da perdite, silenzi e spostamenti. In che modo questi vissuti hanno formato il tuo modo di raccontare attraverso la musica?

Mio padre si è ammalato di cancro quando avevo due anni. È stato malato tutta la mia infanzia ed è morto quando ne avevo nove. Crescere con quell’assenza è stato come vivere sospeso. Scrivere e cantare sono stati i miei modi per non sentirmi scomparire. Per esistere. Ogni brano che scrivo è un modo per riportare alla luce qualcosa che sembrava perduto.

6. A tredici anni hai iniziato a scrivere per dare voce alla tua balbuzie e alle tue fragilità. Quando hai capito che la musica sarebbe stata il tuo linguaggio più autentico?

L’ho capito da piccolo, ballando con mia sorella mentre mio padre metteva la musica. Sentivo il mio corpo vibrare col ritmo. Ma l’ho capito davvero quando ho capito che nella musica nessuno mi interrompeva. Potevo tremare, urlare, piangere. E nessuno mi diceva di fermarmi. La voce che non trovavo per parlare l’ho trovata per cantare.

7. Il tuo nome d’arte, Revelè, ha un suono evocativo. C’è un significato particolare dietro questa scelta?

È nato in un momento buio. Sentivo il bisogno di rivelarmi, di mostrarmi senza filtri. Revelè riecheggiava nella mia mente: fragile, sospeso, viscerale. Mi piace l’idea che ogni brano sia una rivelazione. È difficile mostrarsi davvero agli altri. Eppure l’arte, per me, serve proprio a questo: a togliersi la maschera e dire “io sono”.

8. Il tuo debutto è stato affidato a Mario Meli, produttore di artisti come Annalisa, Alfa e Clementino. Com’è stato lavorare con lui e cosa ti ha lasciato questa collaborazione?

Con Mario c’è stata un’intesa immediata. Ci siamo conosciuti anni fa, per caso, durante una pausa caffè. Lui ha capito subito chi ero e mi ha cucito addosso un vestito perfetto. Ha saputo costruire la struttura senza toccare l’anima. È stato come trasformare il mio diario in una canzone.

9. Ti ispiri a grandi nomi del cantautorato italiano, da Pino Daniele a Mango. Cosa hai ereditato da loro e cosa invece senti di voler raccontare di nuovo con la tua musica?

Da Pino ho preso la verità nella voce. Da Mango la fragilità che diventa forza. Da entrambi ho imparato che si può cantare l’amore anche quando fa male. Con Revelè voglio parlare a una generazione che si è persa, che cerca, che sbaglia. Ma che non smette mai di voler capire chi è.

10. Il tuo percorso artistico intreccia musica, teatro e scrittura. Quanto queste arti si contaminano tra loro nel tuo modo di esprimerti?

Sono un atto unico. Sono inseparabili. Quando scrivo una canzone la vedo come una scena teatrale. Quando recito, sento la musica nella voce. Tutto nasce dal corpo e torna al corpo. Sono forme diverse della stessa ferita.

11. “‘O Mar ’O Mar” parla anche di solitudine, ma con uno sguardo di speranza. Che messaggio vorresti arrivasse a chi oggi si sente smarrito o lontano da casa, anche solo emotivamente?

Vorrei dire che la solitudine non è una colpa. Che possiamo tremare senza vergogna. E che anche se siamo lontani, possiamo sempre tornare a casa. A volte casa è un odore, una canzone, un pensiero. Ma esiste. E ci aspetta.

12. Napoli, Melito, Scampia, Bergamo… le tue geografie personali sono molteplici. Come convivono dentro di te queste identità diverse?

Convivono in conflitto, ma anche in armonia. Sono cresciuto in periferia, Nord Napoli, ma ho vissuto anni nel nord Italia,. Ho due culture dentro di me.  E oggi avendo vissuto due culture diverse, sono come un ponte tra questi due mondi. Parlo napoletano, scrivo anche in italiano e allo stesso tempo parlo italiano e scrivo in Napoletano. Mi porto dentro il contrasto . E da quel contrasto nasce la mia voce.

13. Qual è il momento più difficile e quello più bello che hai vissuto lungo il cammino che ti ha portato a pubblicare il tuo primo singolo?

Il più difficile è stato quando ho perso tutto e ho dovuto chiedermi se meritavo ancora di provarci. Il più bello? Far ascoltare la versione finale di “‘O Mar ‘O Mar” a mia madre e vederla commuoversi. Lì ho capito che ero tornato davvero. Ho visto nei loro occhi una commozione e un ritorno a casa che mi ha fatto commuovere. Questa è la cosa più bella che posso lasciare alle persone in generale, non solo alla mia famiglia

14. In che direzione sta andando la tua musica ora? Puoi anticiparci se stai già lavorando a nuovi brani o a un progetto più ampio?

Dopo ‘O Mar ‘O Mar, usciranno due singoli: uno a settembre, uno a ottobre. Poi un EP. È tutto già scritto. Ogni canzone è una confessione. Sto cercando di costruire un percorso coerente, reale, fatto di verità e di fragilità.

15. Infine, c’è una canzone o un artista che ti ha aiutato, in un momento difficile, a sentirti meno solo?

“Dancing in the Dark” di Bruce Springsteen. Non è napoletano, ma mi riportava lì. Mi faceva ballare nell’oscurità dei ricordi. Ogni volta che la ascoltavo sentivo immagini, storie, e mi metteva in moto. Mi ha aiutato a scrivere, a ricordare, a sentirmi vivo.

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