Dietro l’ironia che lo contraddistingue, Jovanotti nasconde una verità che sa di favola contemporanea, così come racconta in un’intervista al Messaggero. Una di quelle che partono dal basso, dalla provincia e dalla difficoltà, ma che riescono ad arrivare dritte al cuore del Paese. Oggi, a quasi quarant’anni dal suo esordio, il ragazzo che cantava Gimme Five si conferma uno dei più longevi e amati artisti italiani.
Ma non tutto è sempre stato facile. E non tutto, nemmeno ora, è scontato.
«Quando ho iniziato non sapevo suonare», racconta senza filtri. «Ho fatto l’esame alla Siae fischiettando». È in questo dettaglio apparentemente buffo che si annida il senso della sua carriera: talento istintivo, voglia di comunicare, un’energia travolgente che ha superato i limiti tecnici.
Nonostante l’apparente leggerezza, Jovanotti ha sempre fatto un uso preciso della musica: «Quando canto canzoni allegre sento di essere nel mio elemento e trovarmi in ciò che mi è congeniale. Star bene e guardare al bello è in fondo la mia aspirazione più profonda».
A differenza di molti colleghi, che preferiscono cantare il dolore dell’amore, lui sceglie di raccontarne l’incanto, la gioia, l’euforia: «Le canzoni romantiche che parlano della bellezza dell’amore sono poche, mentre sulla fine del sentimento ne trovi quante ne vuoi. A me piace l’euforia, quell’epifania amorosa che è superiore a tutto: essere in due, bastarsi, volersi ancora, ogni giorno».
Una visione che affonda le radici nell’esperienza personale: «Mi è successo, è la mia fortuna e la benedico».
C’è chi dice che Jovanotti sia il cantore della felicità. Dario Brunori lo ha detto a chiare lettere. Ma lui resta umile: «Da sempre tento di raccontare le cose, ma non sono bravo a farlo e forse sono più adatto a evocarle. La felicità non mi appartiene costantemente, ma la conosco, l’ho vista apparire, la frequento».
Per spiegarsi, cita Vonnegut: “Quando siete felici, fateci caso”. E aggiunge: «La felicità è un vento che ogni tanto mi accarezza, quando soffia provo a respirarne l’aria».
Evidentemente, Jovanotti ci riesce, visto che da decenni riesce a trasmettere leggerezza e libertà con la musica. Dalla bici alla spiaggia, dalle balere ai palazzetti, è sempre rimasto in sintonia con lo spirito del tempo, evolvendosi senza snaturarsi.
Lorenzo è cresciuto in Vaticano, figlio di un gendarme e di una madre che descrive con ironia e affetto: «Una coppia molto tradizionale in cui la mamma è passivo-aggressiva e il mio babbo, nei toni, è solo aggressivo».
Non nasconde i momenti difficili: «Quando ero bambino speravo che i miei genitori si mollassero, perché avevo l’illusione che sarebbero stati entrambi più felici. Litigare era il loro linguaggio». E sulla disciplina in casa aggiunge: «Minchia, sì, eccome: qualche calcio nel culo l’ho preso. Più che altro per le bugie».
Un racconto che unisce fragilità e affetto, come se l’infanzia vissuta tra litigi e punizioni fosse stata anche la culla della sua energia creativa.
Jovanotti non sembra affaticato dal tempo. Anzi, ogni suo progetto (dal Jova Beach Party alla scrittura) è un tentativo di reinventare lo spettacolo e di continuare a portare il suo messaggio nel mondo.
Un messaggio semplice, eppure prezioso: guardare al bello, raccontare la gioia, afferrare il vento della felicità quando passa.
E se serve fischiettare per cominciare, tanto meglio.

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